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Lo scarso valore della "Sconfitta".

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C’è uno strano postulato che appartiene alla nostra società, secondo il quale se un brutto giorno ti fai vedere in difficoltà, se denunci una tua sconfitta professionale, se dichiari di essere in crisi con il lavoro e, peggio che mai, di averlo perduto, se insomma proclami, uomo tra gli uomini, un tuo momento di crisi, di preoccupazione o anche solo un attimo di debolezza, scattano una serie di anticorpi sociali che, invece di organizzare rapidamente una reazione di salvataggio per trovare soluzioni ai problemi del singolo, tendono irrimediabilmente all’emarginazione dell’individuo.

E’ un po’ come se la società non ammettesse la sconfitta, come se la solidarietà sociale tanto decantata si ritraesse proprio nel momento del maggior bisogno del suo singolo componente. L’individuo stesso sa di appartenere pienamente e dignitosamente al corpo sociale solo fino a quando riesce a rappresentare tutti i valori su cui la stessa società moderna si basa, primo fra tutti il lavoro. E sa anche che, appena questo dovesse venire a mancare, per lui scatterebbero una serie di meccanismi spietati, che possono forse riassumersi in una sola parola: emarginazione.

Ma c’è di più. In una società in cui l’unico parametro di misurazione del valore di un individuo è (o era?) dato dal suo successo economico, a che altro potremmo assistere se non, da un lato, all’utilizzo di tutto ciò che di illecito esiste per raggiungerlo, e dall’altro, alla spietata emarginazione di chi questo successo non è, con mezzi leciti, in grado di ottenerlo ?

L’ipocrisia a cui la società, con questi modelli di riferimento e con questi meccanismi di rapporti sociali falsati dal bombardamento esasperato di modelli a tutti i costi “vincenti”, sta obbligando tutti noi, è quanto di più odioso il genere umano si trova da molti anni ormai a sperimentare. Professionisti che non riescono più a collocarsi, imprenditori travolti da eventi troppo più grandi e ingovernabili di qualsiasi loro possibilità, l’inadeguatezza di veri strumenti di risposta ai problemi di chi ha perso o sta perdendo un lavoro. Il risultato è un prezzo altissimo che l’individuo paga in termini di dignità, di autostima, di perdita totale dei veri valori di riferimento, e che sempre più spesso, anche recentemente, arriva fino al suicidio.

Mi chiedo perché nessuno parla di questi argomenti, come se il pudore per una realtà tanto vera e odiosa quanto, evidentemente, innominabile, si fosse infiltrato anche nelle menti di chi, come noi, sa e può comunicare, anzi fa della comunicazione un fondamentale momento della propria “vita sociale”. Io personalmente sono stanco di questa ipocrisia, dei curriculum ormai svuotati di tanti “consulenti” che non possono e non vogliono, per i meccanismi citati, denunciare il loro disagio professionale, perchè sanno già in partenza che questa nostra società non perdonerebbe mai questa loro “debolezza”, questo momento di umanità. Tante volte mi sono interrogato e ho scritto, senza nessun pudore, su quanto il ruolo dell’uomo, parlando di reti o altro, sia da rimettere al centro, ridandogli pienamente quella dignità che dovrebbe appartenergli indipendentemente, o almeno non solo, dal successo economico o professionale. La risposta a queste riflessioni è quasi sempre assente, direi quasi totalmente inesistente.
E così, alla fine, quello a cui si assiste sempre è una totale mancanza di reazione, uno starsene accuratamente riparati nel silenzio e nel qualunquismo, perché tanto ci sono sempre i soliti donchisciotte idealisti a perorare cause ben più generali, a farsi portatori del disagio di tutti. E questo pensiero silenzioso e sommerso, impaurito o forse semplicemente indifferente, è un altro maledetto e velenoso virus che ci contraddistingue, una mancanza di reazione ai propri stessi problemi nell’illusione che qualcosa o qualcuno provvederà a rimettere tutto a posto, senza che noi dobbiamo preoccuparcene mai.

Quindi, per una volta voglio chiudere l’ennesimo commento non con una domanda, ma con una provocazione un po’ amara, frutto della constatazione del silenzio e della reazione inesistente proprio di tutti coloro a cui queste riflessioni dovrebbero primariamente importare, e a cui bene o male sono sempre rivolte: incentivo all’estinzione ? non reagite, ed è fatta!

Eugenio Ferrari

13 Commenti

  1. carissimo Eugenio, c’è poco da commentare, le tue riflessioni sono molto vere, autentiche e “fuori dal coro”. Il dramma è che spesso queste cose le pensiamo o le diciamo solo quando siamo ormai in crisi o fuori dal lavoro, naturalmente parlo per me che messo fuori da una multinazionale americana all’età di 54 anni non ho trovato più nulla, e ora (quasi 56 anni) devo dire in tutta onestà che non cerco più.
    La verità è che la realtà è come avvolta da una coperta di parole, spesso in inglese,senza più senso: il licenziamento è un outplacement, i licenziamenti collettivi “re-engeenering”, la guerra fra poveri sui posti di lavoro “sana competizione”, i diritti del lavoro “pretese novecentesche”, la flessibilità assoluta (in entrata, in uscita) “changelling”. Potrei continuare per ore, la sostanza è che negli anni si è sedimentato e strutturato fino a diventare “egemone” un linguaggio: dove prevale il “significante” sul “significato”,il segno sul contenuto. Ma questo in che rapporto sta con il discorso di Eugenio? Ci sta eccome, perchè oggi quello che ci manca sono proprio le parole, un nuovo vocabolario per esprimere la sconfitta ma anche la speranza, il futuro, un nuovo lessico finalmente liberato dalla comunicazione aziendale che cerca riuscendoci di costruire una visione organicista e quindi autoritaria della società (orwell ?? forse).
    Prima di RI-costruire un nuovo lessico sociale, bisogna lavorare a de-strutturare quello oggi predominante: smascheramento, ironia, parodia, disincanto, bisogna lavorare con e sulle parole affinchè riemergano i veri bisogni dell’uomo. Comunque non è vero che nessuno ne parli, i segni ci sono, a volte sono intermittenti, a volte opachi, a volte rimandano al passato, ma li potete riconoscere dalla loro “gratuità” non c’è un tornaconto personale immediato.

  2. Complimenti Eugenio per l’attualità e la mancanza di peli sulla lingua. Sinceramente credo che una delle funzioni di FdR sia proprio quella di non scordarsi delle persone nel momento in cui ne hanno bisogno, e credo che iniziative come la Bussola del lavoro vanno proprio in questa direzione. Certamente è una goccia nel mare, ma se più gruppi lavorassero in questa direzione riusciremmo a far considerare maggiormente le persone e affronteremmo meglio anche momenti come questi. Fermo restando che un altro modo di affrontare il problema è far vedere le possibili alternative (vedi incontri con Calabresi e Downshifting) e su questo penso che siamo decisamente allavanguardia.

  3. Ho conosciuto Eugenio un paio di anni fa. Era uno dei relatori all’evento sulle Reti d’Impresa che organizzammo con FdR in Ducati. Eugenio non ebbe alcuna remora a raccontarci che non tutte le Reti possono funzionare e ci portò la testimonianza di una Rete nel settore del Fashion che per vari motivi, ma uno in particolare – l’accesso al credito e le direttive bancarie – avevano definitivamente stroncato l’iniziativa di Eugenio e dei suoi soci che a distanza di mesi dalla chiusura del progetto continuava a ricevere richieste di commesse da parte di ipotetici clienti.
    A distanza di oltre due anni mi sembra che la situazione si sia solo aggravata. A differenza di Eugenio che invece di strada ne ha fatta ed ha costituito un’organizzazione che fa “cultura di rete”, laddove le solite Associazioni Industriali Note non sono ancora riuscite.
    Eugenio non lo sa, ma ha la grande fortuna di avere quella mentalità “out of the box” che il buon Roberto Bonzio ci ha ben descritto durante uno dei suoi tour di Italiani di Frontiera con FdR: “In Italia se perdi sei uno che ha fallito. All’estero sei uno che ci ha provato e prima o poi avrai sempre una seconda occasione.”

  4. Ciao Eugenio, condivido tutto quello che scrivi; ho una storia simile alla tua e immagino il percorso di consapevolezza – tutto in salita – che ti ha portato a fare le considerazioni /provocazioni che definisci amare.
    Ho provato ad analizzare la situazione considerando vari punti di vista e alla fine sono arrivata alla conclusione che, realisticamente, in questo momento, due sono gli obiettivi che intendo raggiungere: il primo è entrare in progetti internazionali nel mio ambito di competenza e continuare così a lavorare e ad aggiornarmi, il secondo è promuovere delle proposte di progetti per sensibilizzare le persone su questa conseguenza della crisi e per portare avanti iniziative di cittadinanza attiva con le quali si possa cominciare ad affrontare il problema concretamente.

    Sono assolutamente convinta sia necessario unirsi e che fino a quando continueremo a essere un popolo di individualisti, come scrivi anche tu, il percorso sarà ancora più difficile.

    Fiordirisorse ci offre la possibilità di confrontarci e incontrarci; proviamo ad unirci per sostenerci e portare avanti iniziative concrete. Con alcuni amici ho già cominciato a promuovere un progetto che ha come finalità la riqualificazione e ricollocazione dei lavoratori adulti; stiamo avendo molte difficoltà a trovare gli interlocutori giusti per avere risorse e promozione ma continuiamo ed insistiamo convinti che una buona idea alla fine sarà apprezzata.

  5. Ciao Eugenio:

    quanto dici è verissimo. E’ molto più facile condividere successi che sconfitte. Ed è successo a tutti provare la solitudine dopo una perdita di lavoro.
    In realtà termini quali “successo” e “sconfitta”, così come “progresso”, prevedono un andamento lineare e semplicistico del tutto confutabile nella logica del singolo e delle sue esigenze/limiti. Bisognerebbe che ciascuno di noi si dedicasse a risignificarne i valori di queste parole-contenitore nell’ambito delle proprie aspirazioni e morale.
    A mio parere, una “sconfitta” – come una perdita del lavoro o un evento contrario – sono spesso motivo di riconsiderazione di questi contenitori e di verifica se qualcosa nel ns personale sistema non sia un po’ sbilanciato. Un augurio a non perdere il coraggio e la fiducia !

  6. La fenomenologia è corretta. Ma perché siamo arrivati a questo punto?

    Primo: la storia. Negli ultimi 50 anni, è stato un fiorire di scuole ideologiche nefaste e mortifere, che hanno alimentato il nichilismo, lo sfascio delle strutture di base della società, dalla famiglia all’impresa, che poi, in Italia, spesso coincide con la famiglia. Un saggio collettaneo dal titolo significativo “Pensiero debole” è diventato un best-seller ed è datato 1979, un anno dall’assassinio di Moro. C’è la storia di mezzo. Se non si guarda quella, si rischia di fermarsi al famoso dito senza far caso alla luna.
    Secondo: se l’unico scopo per vivere è vivere, alla fine non vivi neanche più. La modernità in Italia è scoppiata in maniera particolarmente violenta e niente e nessuno è riuscito a fermare questo tracollo. Siamo passati dalle piazze piene di operai all’insegna del rivendicazionismo puro (che non è giustizia, è invidia sociale scaraventata contro le realtà produttive e non parassitarie) al corporativismo statico che anche in questi gg abbiamo visto all’opera, visto che alligna alla grande anche tra i caporioni dei cda insediatisi al governo. Ma anche qui la storia, seppur recente. Tangentopoli era la rivoluzione italiana, vero, per molti, anche imprenditori, giusto? Bene, il massacro di una classe dirigente che aveva portato l’Italia dalle pezze al culo della fine della seconda guerra mondiale con 22 anni di dittatura alle spalle, ha condotto a non avere più un’idea di Paese e di sistema-paese, mentre avanzava un fantasma luccicante e privo di sostanza come la cosiddetta “seconda repubblica”, che oggi sta franando in diretta, giorno dopo giorno. Tutto si paga, e i cocci di ciò che si rompe sono nostri e si trasmettono ai nostri figli e forse ai figli dei nostri figli, perché fa questo stato di cose complessivo ne usciremo, se va bene, fra 30 anni. Nella migliore delle ipotesi. Questo è il dato.
    Terzo. L’uomo è all’angolo. Ne parla solo Benedetto XVI dell’uomo, gli altri, fino a ieri impegnati ad insegnarci che il capitalismo non aveva basi cristiane, umanistiche o etiche, ma soltanto legate alle “cose”, alla “roba”, di verghiana memoria, per così dire, e per giunta su base mondiale – caspita che invenzione! -, oggi si stracciano le vesti (non è il caso dell’autore del post, sia chiaro); ma nichilisti erano e nichilisti sono rimasti.
    Quarto. Noi abbiamo subito non 1, ma 2 guerre mondiali, perché la guerra fredda, in termini di spesa pubblica ci è costata più di 300 miliardi di vecchie lire e il debito pubblico che abbiamo è servito anche alla pace sociale, con il più forte partito comunista d’Europa, che stava alle calcagna e ricattava la base produttiva alimentando cooperative senza finalità sociali, ma con forte struttura politica e gestionale, con salvacondotti fiscali a dir poco scandalosi (come le banche, giusto?), e varie altre cosette da questi fenomeni derivanti: questa è la nostra storia. Negli USA non è così, perché loro sono fatti di un’altra pasta, questo Paese è stato aggredito da un violento ideologismo che si è rovesciato in nichilismo e questo ha fatto molto male alla famiglia, alla produzione (sì, anche agli utili e al fatturato), agli individui. C’è ben di più che il mero individualismo ed emarginazione, c’è da capire la storia, perché di essa siamo figli.

  7. @Eugenio. Touché, nel senso migliore del termine. L’abbiamo detto a quattr’occhi, lo condivido e prima di condividerlo lo vivo con quegli irrefrenabili stimoli di proattività che caratterizzano la mia età anagrafica.
    Reagiamo per cambiare, non per competere, per crescere non per aggredire il prossimo così come tanti di noi hanno silenziosamente e dignitosamente patito, ma solo per poco.
    Perché poi in tanti, uomini e donne che transitano su questa immensa rete, è scattata la molla del riscatto, della voglia o necessità, chiamatela come volete, essendo fatti di cervello e tanta determinazione.
    Lavoro ? Ora più di prima. Basta a pagarsi i contributi (perché questo accade) ? Va bene così. Intanto creiamo nuove relazioni, intessiamo una tela fitta, fittisima e inesauribile di buone cose, di bei pensieri, così come ho sempre chiesto e “preteso” da tutti i miei ex colleghi e collaboratori.
    Durante una passeggiata in un parco ancora incontaminato, in montagna, leggo su una bacheca una citazione di Proust, che ben descrive questo nuovo corso, al quale non possiamo, non dobbiamo sottrarci: “Il vero viaggio di scoperta non consiste nel cercare nuove terre ma nell’avere nuovi occhi”.
    Da buon esploratore (sono stato scout come tanti di Voi), non posso pensare di fermarmi, proprio ora e soprattutto di fare qualcosa “per lasciare il mondo un po’ migliore di come lo avete trovato” (Baden Powell). Nonostante i momenti di scoramento dobbiamo scoprire quanto d’inatteso abbiamo a disposizione magari davanti o accanto a noi oppure a distanza, ma non per questo impossibile da considerare, da condividere, da distribuire.
    E’ vero ! Nel momento della “crisi”, c’è stata la diaspora. Homo homini lupus, scriveva Plauto. Maledettamente vero, vissuto ! Ma ora basta !
    Ci saranno pure modi, tempi e maniere, tante buone maniere perché la rete esprima e dia frutto e valore ?! Così matura il vino buono.
    Buona Serata, da un tranquillo paese della Foresta Nera, dopo altri 1600 km d’auto.

  8. Complimenti a tutti. Un’argomento che va da se, una provocazione che dovrebbe far saltare tutti sulla sedia prendere in mano le rendini e iniziare a governare questo mondo lavorativo che purtroppo nn offre altro che disagio a tutti, lavoratori con esperienza e giovani che se la devono sudare. Se insistiamo io penso che piano piano il numero aumenta e poter riprorre un nuovo status-laborioso non sia difficile. Ci vuole tanta ma tanta umiltà con obiettivi di crescita dove l’individuo prima si possa confrontare e poi nella società. Solo così si può ritornare a quel livello di autostima, fiducia, buona competizione, insomma parole positive per ottenere una società che si per stragrande maggioranza luogo dove respirare ossigena ridiventi possibile. I giovani sono la forza motrice non distruggiamoli con falsi ideali al contrario dimostriamo loro la forza di resistere e combattere.

  9. Ci sarebbero tantissimi spunti dell’intervento di Eugenio da commentare.
    Tuttavia sarò molto sintetico. L'”espulsione” dalla propria contingente condizione professionale non deve assolutamente essere visuuta come sconfitta personale (anche se agli occhi degli altri tale appare) ma come momneto di focalizzazione lucida delle proprie esperienze da “organizzare” per proseguire il proprio percorso.

  10. Sono d’accordo con quanto affermato da Andrea. Mi trovo nella situazione di disoccupazione o forse meglio: sono “diversamente” occupato. Occupato “diversamente” rispetto a ieri, con il lavoro con contratto a tempo determinato; ma la partita si gioca – e lo dico dopo 4 mesi di disoccupazione e varie altre problematiche in corso – proprio con lo strumento della “riorganizzazione” delle esperienze. A tal proposito, approfitto dell’esperienza di professionisti certamente più quotati e con più numeri di me: avreste qualche spunto-strumento-mentoring etc. che possano favorire la riorganizzazione concreta ed efficace delle esperienze personali-professionali?
    Anticipatamente: grazie.
    R.

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