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Il cambiamento o c’è o non c’è.

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@antonellaCipollone

La verità è che il cambiamento o c’è o non c’è. Dopo trentatré anni penso di averlo capito il 14 Luglio a San Patrignano, e la verità è che quasi sempre non c’è. Siamo abituati a vedere una miriade di sfumature, di accenni, indizi, che stiamo cambiando ed invece non ci siamo neppure vicini.

Sfumature che crediamo saper cogliere ed invece sono solo giustificazioni elaborate con la forza dell’esperienza.

Dopo aver “vissuto” San Patrignano non posso non perdermi in queste riflessioni. La dipendenza più pericolosa è questa: rimanere attaccati al passato, dire “cambio” ma dirlo soltanto a parole. Nei fatti invece quasi sempre il nulla.

Ho visto San Patrignano con gli occhi di Cristiano, un ragazzo che è “dentro” già da due anni e gliene aspettano altri due. Soprattutto ho visto cosa sia davvero il cambiamento, cosa sia “fare le cose in modo diverso” e cosa invece non lo è proprio.

Lì per lì sono rimasto perplesso, lo ammetto. Ho pensato che fosse tutto troppo esagerato, credo anche di essermi fatto venire in mente qualche scena degli Amish, e forse mi è scappato anche qualche sorrisino di superiorità. Insomma devo dire che ho pensato che certe cose siano fuori dal mondo e che Sanpa stessa sia fuori dal mondo.

Lì è più o meno come un contrappasso dantesco; fai tutto il contrario di ciò che hai fatto prima. A dirlo così non fa una grinza ma ti assicuro che a sentirlo fa un altro effetto e mi immagino, anzi non ci riesco, cosa significhi viverlo ogni giorno.

Genitori ed amici possono scrivere una lettera ogni settimana ma nessun contatto telefonico. Zero social. La tv è un format stabilito dalla regia; oggi si vede questo e questo, e basta. I ragazzi e le ragazze sono separati come in un collegio anni ’30 ed è vietato, o sconsigliato, parlare con l’altro sesso, figurarsi relazionarsi.

E si lavora ogni giorno, ogni santo giorno. Il tempo “privato” è poco, quasi zero. Le camere sono da 12 persone, comunicanti, stanze da 6 e 6, con due bagni. La doccia non si fa con calma e in privato, si fa insieme in un ambiente unico.

Quando entri, inizi quasi sempre dal basso, dal profondo, dal letame delle stalle. Non ti porti nemmeno le sigarette, come in una normale comunità terapeutica. Non ti porti nulla della tua vita prima.

Ho sentito un nodo in gola, ho chiesto spiegazioni.

MI ha risposto Antonio, uno dei ragazzi più anziani, uno di quelli che il percorso l’ha finito ed è rimasto lì ad aiutare gli altri. Mi ha guardato con tenerezza, come quando un bimbo ti chiede di spiegargli una cosa scontata che non riesce a comprendere proprio. MI ha detto “Se sei lì (a Sanpa) significa che tutto ciò che hai fatto prima non ha funzionato. Allora c’è solo da resettare e fare tutto in modo diverso”.

Mi ha fatto sentire un pirla, mi ha fatto male ma mi ha fatto anche pensare. Ha ragione!

Il problema forse è che noi siamo quelli della generazione dei Nintendo e della play.

Siamo quelli che quando durante una partita sbagliano qualcosa, cliccano un tasto e ricominciano dallo stesso punto. Quelli che, non solo nei videogiochi, sono sempre convinti ci sia sempre un’altra possibilità.

Il che è grandioso, è giusto pensare di avere un’altra possibilità, ma mi rendo conto che la maggior parte delle volte intendiamo tutto in un altro modo. Un’altra possibilità è quasi sempre una possibilità di sbagliare e rimediare, e di sbagliare sorridendo che sia accaduto.

Colpa della play o della spazzatura motivazionale, del fatto che oggi se qualcuno parla di fallimento viene accusato al pari di un generale tedesco delle ss, che ci siano eventi in giro per il mondo che celebrano il fallimento.

La verità allora è che il cambiamento o c’è o non c’è; che o si vuole cambiare o non si vuole cambiare.

Mi rendo conto solo adesso di quanto siamo lontani dalla soluzione, di quanto una parola potente risulti vuota per come la utilizziamo.  Il cambiamento, a braccetto con l’innovazione, è sempre visto come un qualcosa di sexy e risolutivo. E’ bello, a parole, dirsi open mind, fuori dagli schemi, pronti a rinnegare il proverbiale “abbiamo sempre fatto così”.

Ma nei fatti è un’altra storia.

Una storia raccontata da Cristiano, da Laura, da Antonio e da chissà quanti che non siamo riusciti a sentire.

Ti guardavano in faccia e vomitavano fuori il loro fallimento, senza vergogna. Il successo raggiunto, il cambiamento ed il percorso di cambiamento, stava a te invece intuirlo.

C’è una scena bellissima che mi porterò per sempre: al termine della serata, è stata anche una festa ed è stata bellissima, i ragazzi sistemavano tutto “il disordine” da noi creato. Un gruppetto trasportava via le barriques con una carriola massiccia in legno. Un altro gruppo, che aveva probabilmente compiuto il primo viaggio, tornava a prendere le altre rimaste lì sul prato.

Ho visto 5 o 6 ragazzi seduti sopra in modo buffo ed altri a spingere. Erano tutti terribilmente divertiti, ridevano, ed anche chi non lo faceva, aveva un sorriso straripante che veniva giù dal viso.

Li ho guardati impietrito. Ho pensato come potessero ridere. Che cosa c’è da ridere in un posto simile?

Oggi mi sono dato due risposte.

Ridono perché sanno di aver sbagliato tutto e che questo è l’unico modo per ripartire, per cambiare.

Ridono perché di fronte a loro c’è un tizio più sfortunato.

Credo che quel tizio fossi io.

In mano una sigaretta, nell’altro l’iphone per controllare se sui social si dicesse qualcosa di nuovo, sul volto uno stupido senso di superiorità.

Ci penso e devo dire che mi viene voglia di cambiare. Spero di portare ancora per molto tempo quell’immagine nel cuore, così vivida, così forte. E spero di cambiare, anche se sperare so non è la soluzione. Il cambiamento o c’è o non c’è.

3 Commenti

  1. Grazie Davide, per avermi portato una parte della FdRSummerFest. Leggendoti mi è venuto in mente “Il Gattopardo”, che ho studiato alla università: Travestirsi di cambiamento per non cambiare. Rimanere nella zona di confort, con i suoi pro e contro tutti sapientemente giustificati.
    Mi ha colpito un tuo passaggio, quello della Nintendo e della Play. Lo vedo sopratutto nelle nuove generazioni, quelle che vogliono tutto ora, e che se le cose non vanno come vorrebbero non sanno come affrontarle, se sbagliano vorrebbero fare un “reset” invece di prendersi la responsabilità. Grazie ancora.

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