Made in Italy e marketing myopia. Ovvero: “molto ragionamento e poca osservazione portano all’errore”
Una premessa
Qualche anno fa fui invitato a una conferenza durante una famosa fiera agricola del centro Italia sul tema del Made in Italy all’estero. Mi ricordo che preparai l’intervento con cura a partire dalle teorie e dalle evidenze empiriche più aggiornate del tempo. Mi trovai però a disagio a parlare al di fuori del contesto accademico, principalmente per due motivi. Il primo riguardava una situazione al limite del grottesco: eravamo in sette a parlare al tavolo (rappresentanti di varie istituzioni) e un solo imprenditore agricolo ad ascoltare. Il secondo è che alla fine dell’incontro questo signore alzò la mano e disse: “è tutto vero quello che dite, ma io domattina devo tornare nel campo. Cosa c’entra quello che studiate voi nelle vostre torri d’avorio con quello che devo fare io domani nel mio campo? Io non l’ho mica capito!”. Non mi ricordo esattamente cosa risposi, ma ricordo che quella provocazione ridestò in me tutta una serie di domande e sono state molte da quel momento le sollecitazioni che ho avuto dalla realtà.
Conoscere i propri competitor
Un esempio molto semplice riguarda un certo numero di imprenditori marchigiani con cui qualche anno fa presso il Centro Italiano di Analisi Sensoriale realizzammo delle sessioni sperimentali: chiedemmo durante un focus group quale fosse la loro percezione del mercato americano del vino, che tipo di percezione avessero dei vini californiani, come sentissero la competizione da parte dei produttori d’Oltreoceano (in America negli ultimi anni c’è stato un fenomeno di mercato significativo legato ai Cal-italian ovvero i vini californiani che vengono prodotti con vitigni italiani: Barbera californiano, Sangiovese californiano, Vermentino). Emerse una scarsa conoscenza del settore, soprattutto quando chiedemmo loro quali fossero i vini americani assaggiati o i nomi delle principali aziende. Il vino americano venne descritto come un vino molto “chimico” per palati semplici e non particolarmente attenti alla qualità organolettica. Seguì un test “blind” (non erano presenti informazioni sulle etichette), comparando vini dallo stesso vitigno, stessa annata e stessa fascia di prezzo, solo che alcuni erano americani e altri italiani. Pur con il limite derivante dalla corrispondenza di soli tre attributi si osservò che molti imprenditori avevano avuto una preferenza per i vini californiani, contraddicendo quanto appena dichiarato. Gli esperimenti proseguirono fino a confermarci che l’apprendimento esperienziale, insieme a uno scambio di informazioni “tra pari” (docenti universitari, società di consulenza, imprenditori e manager), è fondamentale per facilitare un’apertura e una disponibilità ad abbattere il pregiudizio che si crea quando ci si confronta con qualcosa di sconosciuto.
Conoscere i potenziali clienti
Ecco un secondo episodio legato alla mia attività di promozione dell’internazionalizzazione all’Università di Macerata. Lo scorso anno la direttrice del dipartimento di Hospitality Management di un’ottima università della Florida è stata nostro ospite. Lo scopo della visita era di consolidare i rapporti esistenti, studiare nuovi progetti di collaborazione e di scambio per docenti, studenti e mondo imprenditoriale. Durante una delle visite presso un’ azienda vinicola, al termine del giro in vigna e in cantina, le venne offerta una ottima degustazione. Lei, wine lover dichiarata, dopo aver assaggiato un Pecorino Offida DOC, evidentemente soddisfatta si rivolse alla proprietaria chiedendo “quanto costa una bottiglia di questo vino?”. La titolare rispose senza pensarci troppo “sarebbero 4 euro”. “Come 4 euro?” ribatté la professoressa sorpresa dall’esiguità del prezzo. Ma l’altra, preoccupata di aver dichiarato un prezzo troppo alto, ribatté subito: “Si, ma 4 euro sullo scaffale del negozio; qui da noi la può comprare a 2 euro e 50”. Finale. “Ma noi negli Stati Uniti non prenderemmo mai in considerazione questo vino, 4 euro è il costo della bottiglia e dell’etichetta!”. In quel momento ho avuto l’ennesima dimostrazione che la scarsa conoscenza dei potenziali clienti in quanto ad abitudini, motivazioni, desideri e bisogni, porti gli operatori a sottostimare il valore che i propri prodotti possono avere sul mercato.
Di cosa abbiamo bisogno?
Entrambi gli episodi non fanno altro che esemplificare quella che la teoria chiama marketing myopia. Questa “malattia” ha a che fare con la predisposizione culturale degli imprenditori o meglio con la disponibilità ad “abbracciare” qualcosa che viene dal di fuori della routine (Levitt, 2004, 1960). Non è detto che tutte le aziende crescano, ma sicuramente prima o poi gli imprenditori si trovano di fronte a dei cambiamenti, come per esempio quelli determinati dalla crisi economica attuale. Avere la possibilità di essere introdotti alla conoscenza della realtà da qualcuno di esterno, osservandola prima di tutto, permette di contrastare il pregiudizio e la presunzione di sapere già. Esattamente come sosteneva Alexis Carrel, premio Nobel per la Medicina nel 1912 per le sue scoperte sui trapianti: “Poca osservazione e molto ragionamento conducono all’errore; molta osservazione e poco ragionamento conducono alla verità”.
Morale (che condivido): verifica “galileiana” delle proprie convinzioni e massima apertura a modificarle se l’evidenza empirica le contraddice.
direi scarsa conoscenza dei mercati internazionali. Oggi però i vignaioli si sono fatti più scaltri
direi poca conoscenza delle dinamiche dei mercati internazionali. Credo che oggi però, almeno nel settore vinicolo, le cose siano cambiate.
Le verifiche “blind” funzionano sempre perché ci ridimensionano nei rapporti con gli altri, anzi nei giudizi che diamo sugli altri e sui loro prodotti. E’ un po’ come quando ci accorgiamo di essere e agire in un certo modo ma il nostro inconscio attraverso i sogni disegna tutt’altro.
Senza gabbie abbiamo meno voglia di scappare e vediamo più lontano: vale per gli uomini (gabbie mentali), per gli animali (gabbie reali), per le aziende (gabbie di marketing e di identità).
Condivido la chiosa finale: “Avere la possibilità di essere introdotti alla conoscenza della realtà da qualcuno di esterno, osservandola prima di tutto, permette di contrastare il pregiudizio e la presunzione di sapere già”.
Tuttavia il problema è che spesso il pregiudizio e la presunzione di sapere già impediscono quella disponibilità a essere introdotti a quella conoscenza della realtà che si ritiene già di conoscere: che la crisi sia la volta buona per rendersene conto, ammesso e non concesso che non sia ormai troppo tardi?