Cronache da un altro mondo: Francia Voulez-vous travailler avec moi?
Siamo partiti da Bologna, con un Doblo’ carico carico, all’inizio del giugno 2009. Destinazione Francia.
Per me era l’andata (la prima), per lei già un ritorno, dopo il primo sbarco in aereo nel marzo dell’anno precedente. La mia avventura é cominciata così, qualche anno e un paio di figli fa, nati su suolo francese ma con passaporto rigorosamente italiano (non per scelta ma per i garbugli poco azzeccati, e anche molto diffusi, che non prevedono lo ius soli, se entrambi i genitori sono di altra nazionalità). Nonostante le prime difficoltà con la burocrazia e l’iniziale scarsa conoscenza della lingua, possiamo dire che l’integrazione è ormai completa.
Vivere in una città multi-tutto come Parigi ha i suoi vantaggi e i suoi svantaggi. Per esserne all’ altezza e profittarne appieno bisogna:
- Vivere nel quartiere « giusto » (il che é di per sé soggettivo, ma neanche tanto).
- Essere proprietaire delle proprie quattro mura (altrimenti si é pari-a-paria-a-paris).
- Lavorare a quindici minuti a piedi-bus-metro-carrozza da casa, ma anche trenta minuti sono accettabili.
- Avere un salario appropriato (nessuno sa di preciso a cosa corrisponda il termine « appropriato » poiché in Francia nessuno ti dirà mai quanto guadagna realmente; il massimo che ci si potrà attendere saranno frasi sibilline del tipo « il mutuo della casa corrisponde al 30% del nostro budget familiare », oppure « attualmente guadagno il 10% in più rispetto al lavoro precedente ». Ok grazie, fa lo stesso).
- Avere i figli iscritti nella scuola « giusta » (cioé nel quartiere « giusto », vedi punto numero 1) e questo sin dalla più tenera étà, se non si vuole compromettere irrimediabilmente le già scarse probabilità che essi entrino a far parte della…della…élite francese! (squilli di tromba, marsigliese, carrellata di quadri narranti le gesta di Napoleone, dissolvenza, fine intermezzo).
Non staro’ à dilungarmi su quali e quante delle condizioni sopracitate corrispondano alla nostra realtà quotidiana, e sopratutto lungi da me l’idea di rivelarvi il mio attuale stipendio (sarebbe come darmi la classica zappa sui piedi e ammettere di non essermi ancora completamente integrato…).
Posso comunque confessare che :
– Dopo diversi anni di attività nel settore privato come ingegnere di sistema in ambito ferroviario (in Italia come in Francia), dal mese di ottobre del 2012 lavoro per l’EPSF (Etablissement Public de Sécurité Ferroviaire) che non si trova a Parigi ma a Amiens, in Piccardia (!), e mi occupo dell’analisi dei dossier di sicurezza preparati dal gestore « storico » dell’infrastruttura (o dai concessionari titolari di un contratto di partenariato pubblico-privato) e del rilascio (se le condizioni lo consentono) delle autorizzazioni di messa in servizio di una nuova linea o di un nuovo sistema sulla Rete Ferroviaria Nazionale.
– Il fatto di inseguire un po’ di soddifazione professionale e il non voler rinunciare completamente al ruolo di genitore mi costa e ci costa attualmente qualche sacrificio e qualche piccola rinuncia in termini di tempo libero, vita sessuale, igiene personale. Quisquilie, insomma.
Ma allora quale é il vantaggio ? Ne vale veramente la pena ?
Considerando unicamente l’aspetto professionale, persino nella situazione critica dell’italia di oggi, grazie all’esperienza accumulata finora e magari essendo pronti a qualche compromesso in termini di salario, credo che il rientro non sia del tutto impossibile. Tuttavia, a parte forse un auspicabile cambio di residenza nel sud della Francia (terra promessa di tutti gli emigrati italiani, e non solo, ove sembra che la vita costi niente, il sole splenda ogni giorno, la gente sorrida sempre e corra solo per fare jogging), nei nostri piani non sono previsti drastici cambiamenti che ci farebbero rinunciare alle piccole, graduali, sudate conquiste odierne. Almeno nel corto/medio periodo, il ritorno dall’altra parte delle Alpi (tanto per rimanere sul generale) non é da noi considerato una priorità. E questo per diversi motivi. Ne elenchero’ due o tre.
Intanto l’italia é a un’ora e mezzo di aereo. Non abbiamo tagliato alcun ponte con la famiglia o con gli amici di sempre. Grazie a skype e ai social network siamo paradossalmente più al corrente adesso riguardo alla vita quotidiana dei nostri conoscenti di quanto non lo fossimo in realtà prima di partire. Certo la vicinanza degli amici più stretti ci manca ma il divanone ikea é sempre disponibile. Tutto questo ci lascia ancora con il piedino comodamente tra due staffe.
Poi, oramai non siamo una coppia di scapestrati Senza Fissa Dimora. Siamo una famiglia. I nostri figli hanno la grande opportunità di imparare due lingue e due culture diverse (seppure molto più simili di quanto si possa credere), di frequentare scuole dove, almeno a Parigi, i bambini bi o tri-lingui sono moltissimi. Sarebbe stupido privarli di questa occasione soprattutto per chi, come noi, conosce fin troppo bene gli sforzi che richiedono una vera integrazione e l’acquisizione di una certa apertura mentale. Quindi, sempre che il futuro non ci riservi cambiamenti inaspettati, faremo parte di quelle innumerevoli coppie di oriundi con figli maledettamente bilingui (che non perderanno l’occasione di correggere e mettere in ridicolo in pubblico i genitori, a causa del loro marcato accento italiano)..
Infine, questa « emigrazione da terzo millennio » non rappresenta solamente un modo per seguire le mie « aspirazioni professionali ». E’ stata ed é tuttora l’espressione del bisogno di un cambiamento di Stato mentale (!) e di prospettiva diventato a un certo punto indispensabile per la mia « sopravvivenza », almeno in quanto essere vivente dotato di raziocinio. L’istinto di sopravvivenza ci porta a crearci un’oasi di parenti o amici che sono il riflesso di cio’ che amiamo di più, un riparo costruito per difenderci da cio’ che di pericoloso o disonesto o semplicemente spiacevole possa esserci « fuori ». Quando la spaccatura tra il « Truman show » che ci siamo costruiti e la realtà che apprendiamo dalle informazioni che, a malincuore, lasciamo filtrare all’interno diventa troppo profonda, ci sentiamo talmente disorientati che l’unico rimedio sembra quello di partire, per vedere le cose da lontano. Per capire se siamo davvero noi i mentecatti. E il distacco é tutt’altro che facile. Perché l’essere umano, anche il più dinamico, fondamentalmente é pigro e abitudinario e tende a minimizzare le scelte, siano queste facili o difficili. Che fatica ci costa cambiare posto macchina quando arriviamo al lavoro, se qualcuno si azzarda a « rubarci il nostro »? Quello che alla base é un atto di vigliaccheria pura (in pratica, una fuga dalle difficoltà) nei confronti di un sistema davanti al quale ci sentiamo impotenti e soli, rassegnati a non poter cambiare, é anche una scelta che richiede paradossalmente molto coraggio e molta fatica. E’ per questo che tornare indietro ci sembra cosi’ difficile.
Di questo paese cosi’ simile al nostro, e che é lungi dall’ essere scevro di « vizi », rispetto e invidio la sana abitudine di rivendicare i propri diritti di lavoratore o semplicemente di cittadino, la capacità di alzare i toni nel diverbio continuando a darsi immancabilmente del « vous », che sia nel bus, nel traffico o in un ufficio amministrativo. Quello che di sicuro non rimpiango del nostro paese é invece la sensazione diffusa, e purtroppo crescente, che tutto sia lecito, tutto sia giustificabile, tutto sia sacrificabile per il proprio tornaconto o quello dei propri cari, in barba alle istituzioni, ai concittadini, al vicino di casa o al cugino di secondo grado, quello che non vedo mai. L’incapacità « genetica » a fare fronte comune che ci rende così estremamente soli davanti all’ingiustizia.
Mi piace pensare che qua, a cavallo tra il sud e il nord Europa, nel paese che fa da ponte tra il Mediterraneo e il Mare del Nord, si arrivi al giusto compromesso tra la valorizzazione dell’ « io » e il rispetto del « noi ».