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Un siciliano in Asia: storia di Antonio, un hr manager giramondo

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Ore 22.30 cinesi, ore 15.30 “del meridiano di  Ivrea”, con il mio amico Antonio Calcò Labruzzo, palermitano adesso residente in Cina (Shanghai) per Coesia. Ha appena finito una cena di lavoro, non hanno bevuto tanto e devo dire che Skype supporta bene la conversazione.

Brevi note personali: classe 1982, laureato a Milano in Economia alla Bocconi; mentre tutti facevano marketing e finanza, Antonio pensava che gli aspetti più interessanti del business fossero le risorse umane.

Fare leva sul capitale umano era più sostenibile ed era più vicino alle sue aspirazioni. Cosi ha deciso di indirizzare lì la sua carriera.

Come hai iniziato la tua carriera?

Ho iniziato in L’Oreal; quando ero al penultimo anno di università, sono andato ad un career day in Bocconi. Ho preparato un cv, ho selezionato le 5 aziende per me più interessanti e tutte gravitavano nel settore del largo consumo.

L’Oreal mi ha chiamato subito per una posizione in risorse umane, inizialmente uno stage. E’ stato subito feeling e ci siamo scelti immediatamente. Mi sono occupato di recruiting. Avevo un’idea diversa delle risorse umane, pensavo più all’organizzazione. Ho avuto il miglior maestro che potessi sperare, Paola Boromei, e ho lavoravo in quel team fantastico che Gianluca Ventura aveva costruito.

Dopo L’Oreal come sei passato in GE e Vodafone?

In GE c’era un bellissimo progetto di cambiamento organizzativo e culturale; inoltre ho avuto la possibilita’ di frequentare un master in risorse umane al MIP. Sono rimasto un anno, mi occupavo di recruiting, poi aspetti soft della funzione. Inoltre gestivo un progetto di change management e qui ho potuto toccare con mano strumenti e processi avanzatissimi.

Poi una sera mi ha chiamato Gianluca Ventura, che da L’Oreal si era spostato in Vodafone e mi ha spedito a fare l’HR business partner a Roma con la responsabilità del centro Italia.

Che differenze hai percepito tra queste tre multinazionali?

Ripensando alla prima fase della mia carriera, il 50% e’ stato dettato dall’ istinto ed il 50% da una strategia di crescita. Sono passato da L’Oreal, azienda destrutturata per eccellenza, a GE, che è l’opposto: totalmente strutturata. Vodafone invece era in fase di sviluppo, c’erano tante cose da fare. Qui ho visto tutto il ciclo di un HR a 360 gradi, la gestione intera, parte sindacale compresa.

Che cosa ti hanno dato in termini di bagaglio professionale queste prime esperienze?

Mi hanno insegnato a usare diverse leve, a scegliere l’attrezzo giusto all’interno della mia “cassetta”, che saper cambiare è fondamentale, che esistono tantissimi punti di vista e che l’HR è un ruolo che si può interpretare in modi molto diversi. Mi hanno insegnato ad essere flessibile e ad interagire con diverse culture manageriali.

All’inizio mi pare di capire che il tuo percorso è stato collegato anche a quello di Gianluca Ventura: come sei passato ad Heinz?

Ad un certo punto mi sono reso conto che dovevo approfondire le mie conoscenze specialistiche, completare la mia “cassetta degli attrezzi”; un head hunter mi ha contattato e mi ha raccontato un bel progetto: una multinazionale che però dava autonomia a livello locale. Vodafone invece si stava molto “centralizzando” in UK. In Italia Heinz è principalmente Plasmon, baby food. Avevo molto autonomia. Qui ho avuto l’opportunità di rivedere i processi e poi metterli in pratica. Sono entrato dentro le aree di: recruiting (che ho cambiato come processo, rendendolo più efficiente), performance management (altra area che ho cambiato), sviluppo e poi training. Ho avuto chiaramente il supporto di consulenti esterni e naturalmente avevo la sponsorship dei miei superiori.

Dopo i primi anni ed i risultati ottenuti sui progetti, mi hanno chiesto di assumere la responsabilità di uno stabilimento, quello di Parma; lì ho avuto la fortuna di toccare con mano una dimensione umana fantastica, il valore delle persone che ho conosciuto e quello che mi hanno insegnato mi ha riportato con i piedi per terra a contatto con i valori veri dell’azienda.

Come sei entrato in Coesia, che è un settore molto diverso rispetto agli altri?

In Heinz sentivo che un ciclo stava per chiudersi e poi volevo fare un’esperienza internazionale. Come all’inizio volevo di nuovo allargare i miei orizzonti, anche attraverso un settore molto diverso. Sempre tramite un head hunter, mi è stato presentato un bellissimo progetto, ancora di cambiamento culturale: quello di Coesia che aveva deciso di passare dall’essere una federazione di aziende a strutturarsi da vero gruppo multinazionale. E questo attraverso 5 chiare azioni strategiche di cui una era appunto quella di far leva sul talento, che è stata affidata a me.

Come sei finito in Asia?

E iniziato quasi per scherzo, ne ho parlato con il mio capo quando eravamo in Cina per un evento che suggellava il completamento del primo ciclo. Come succede nei colpi di fulmine, non abbiamo avuto necessità di entrare nei dettagli e dopo poche settimane è uscito l’annuncio organizzativo del mio nuovo ruolo a capo della macro regione Asia ed Australia, con base in Cina.

Come ti trovi in Cina? Quali sono le differenze più nette che trovi tra Italia e Cina?

Ci vivo da due anni ma gestendo un’area così vasta per territorio e culture come Asia, Australia e Giappone con 15 stabilimenti, pur facendo base in Cina sono in giro per una buona parte del mio tempo.

Quello che ho capito su questa parte di mondo, e sulla Cina in particolare, è che è difficile capirla. Dall’Europa tendiamo a considerarla come un paese unico, ma dentro ci sono infinite sfumature di colore ed enormi differenze rispetto alla cultura occidentale.

A livello umano mi ha insegnato a capire prima di giudicare; all’inizio è complesso comunicare con i cinesi, non perché non parlano inglese ma perché diamo significati diversi alle parole.

Chiedevo alle persone: come va? Mi rispondevano: not bad.

Per me ha un significato positivo perche’ c’e’ una negazione forte, per loro invece ha un significato più negativo perché nella risposta c’è una parola come “bad”. Inoltre sto studiando il mandarino; nella loro lingua per esempio il futuro è dietro, perché non lo conosci ancora, non lo puoi vedere. Il passato invece è davanti, perché lo vedi, lo conosci. Per noi europei è invece esattamente l’opposto. Quindi se non ti fermi ad ascoltare e conoscere la loro cultura, non trioverai mai un punto di contatto, né tantomeno riuscirai a capire.

Cosa ti manca dell’Italia? Il cibo?

No, il cibo no, mi sono adattato; mi mancano gli affetti, mi manca la praticità delle cose. Qui per fare ogni cosa impieghi tanto tempo. Le distanze sono enormi. Per tutto ci vuole tanto tempo. Inoltre ogni cosa che faccio è nuova, manca il processo dell’esperienza. Sono passati ai grattacieli senza fare il passaggio intermedio dei palazzi.

Cosa hanno in più di noi i cinesi?

Hanno il sorriso perché guardano al futuro con ottimismo. Quello che in Italia c’era negli anni ‘60.

Cosa mi dici del forte inquinamento che c’è nel paese?

Dipende da quale luogo, a Pechino sicuramente si, ma non in tutto il paese. Stanno facendo il loro percorso, come lo abbiamo fatto noi negli anni ‘60, quando abbiamo avuto il balzo dello sviluppo industriale. Ovviamente, come per tutto, qui la scala e’ molto piu’ grande e vale anche per l’inquinamento.

La democrazia in Cina, come la vedi?

Qui non c’è il nostro concetto di democrazia, una volta mi hanno chiesto se sapevo che cosa vuol dire votare, se lo avevo mai fatto. Ovviamente per me questo non è accettabile ma per il momento qui funziona. Penso che sia un equilibrio molto delicato e comunque destinato a cambiare.

Ti faccio un esempio, le manifestazioni di Hong Kong qui non sono arrivate, le comunicazioni arrivano filtrate. La libertà come la vediamo noi non esiste, io le notizie le leggo sulla Repubblica on line, ma per i cinesi questo è impossibile perché serve una VPN e i cinesi, almeno in teoria, non possono utilizzarla.

E da un punto di vista lavorativo?

Professionalmente qui ho l’opportunità di vedere un business in crescita in un ambiente in forte espansione, cosa che da noi in Italia è piuttosto rara.

Servono competenze molto differenti e soprattutto molto varie. Tantissima praticità perché spesso bisogna costruire dalle base ma sempre con un occhio alla sostenibilià di lungo periodo. Anche perché le cose qui vanno talmente veloci che il futuro arriva un po’ prima. Si ecco, anche la velocità qui è cruciale.

L’errore più facile da commettere invece è quello di partire dalla presunzione di avere una maggiore conoscenza e perciò aprirsi meno alla comprensione delle differenze e delle specificità locali perdendone pertanto l’enorme valore.

In sintesi?

Beh è difficile fare una sintesi, forse ci riuscirò piu’ avanti. Però vorrei dirti un’ultima cosa che ho imparato vivendo in Asia. Che non basta viaggiare per aprire la mente. Bisogna essere curiosi, alleggerire la valigia dai preconcetti e metterci invece tanto impegno per capire qualcosa che è molto difficile da penetrare: una cultura diversa. Tra i tanti attrezzi che ho aggiunto alla mia cassetta in questi due anni, di questo sono davvero molto fiero.

 

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