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Opera di Roma: licenziare non è meglio che curare

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Vanno sempre in buca ma non sono palline da golf.

C’è chi il lavoro se lo porta dietro, a fine giornata. Loro invece se lo portano addosso, attaccato a una custodia in spalla o a tracolla. Mai, come nel loro caso, si tratta di uno strumento di lavoro.

“Abbattere Orchestra e Coro del Teatro dell’ Opera di Roma equivale ad abbattere un pezzo di muro del Colosseo o tirare un secchio di vernice su un dipinto di Giotto”: sono le parole di un musicista coinvolto direttamente nel licenziamento in tronco dei 182 professionisti tra coro e orchestra annunciato a inizio ottobre dal Sindaco di Roma Ignazio Marino (Presidente  della Fondazione) e in parte ritrattato in questi giorni per bocca del Soprintendente Carlo Fuortes dopo l’incontro con i sindacati: “Se si trovano le soluzioni economiche, ovviamente è possibile ritirare i licenziamenti”.

Il musicista che intervisto resta anonimo per scelta e lo capisco.

Costano troppo quegli esuberi, dice Marino. Costano 12  milioni di euro l’anno e col licenziamento collettivo delle 182 unità avrebbero potuto ridurre i costi di 4 milioni all’anno e poi il metodo innovativo di esternalizzare è già stato impiegato con successo in altre città europee. Non fa una piega, letta così: l’Italia sembra ora improvvisamente mobilitata per l’unico nobile scopo di ridurre ovunque i costi.

Ma a quale costo? E poi, i costi di chi?

Basta andare un po’ più a fondo per capire che le falle sono tante e sono altrove.

In fondo non è questo che mi disamora nella tragicommedia italiana che sta interessando l’Opera di Roma e di cui non conosciamo ancora il finale (ma forse lo possiamo intuire: balletto di sindacati e trattative, congelamento di alcuni trattamenti economici per i lavoratori in attesa di recuperare domani sotto altra forma ciò che viene tolto oggi per portare a termine lo scambio e soprattutto poltrone invariate per il CdA, al limite solo qualche cambio di nome per far credere che qualcosa di diverso è stato fatto e che la futura gestione sarà migliore della precedente). Mi disamora il pensiero che noi italiani ce ne stiamo comodamente a leggere dell’implosione culturale dell’Italia senza muovere un dito e senza alzare la voce.

Non so dire se siamo solo persone semplici o anche persone complici.

Non ci ribelliamo perché in fondo non capiamo di cosa ci stanno svuotando, non ci ribelliamo perché la meravigliosa Italia è di una bellezza inconsapevole che basta a se stessa ma solo finché ne avrà. Poveri noi.

Le battaglie culturali della nostra politica italiana si limitano a lanciare il Ministro Franceschini in Europa per la riduzione dell’iva sugli e-book ma la cultura – diteglielo – inizia molto prima.

Un teatro è sempre un teatro ma il Teatro dell’Opera di Roma è un pezzo di storia in più: è lì che, per la prima volta, più di cento anni fa rappresentarono Tosca e Cavalleria Rusticana ed è sempre lì – come in tanti altri teatri italiani di quel livello – che la professione degli orchestrali e dei coristi si è costruita e perfezionata nel tempo fino a diventare una bandiera nel mondo lirico mondiale.

Bandiere che sventolano all’estero e per le quali, in Italia, il vento è sempre debole.

Di tutte le cronistorie tipiche dei grandi licenziamenti italiani, su questa vicenda è stato scritto poco dagli organi di stampa, se non lanci di notizie aride e numeriche rimbalzati senza convinzione.

Troppo rischioso, per editori e giornalisti, tirar fuor le verità dalle stanze dei bottoni politici italiani? Sarebbe una notizia di forte impatto mediatico tra platee e orchestrali in rivolta eppure di contributi video sui canali di informazione non se ne sono visti. Evidentemente Aida, Tosca e Lucia di Lammermoor valgono meno degli attacchi (esecrabili) della polizia sui manifestanti Thyssenkrupp a Terni.

Il musicista anonimo intanto organizza comizi al bar per spiegare agli amici cosa sta davvero succedendo in Italia partendo dal caso dell’Opera di Roma ma loro non capiscono perché di fatto lo considerano un privilegiato che ora trema solo perché sta per perdere i suoi bonus.

Il pensiero medio è pericolosamente quotato al ribasso e il qualunquismo sarebbe da quotare in borsa.

“Non li condanno perché di fatto questo Stato non offre gli strumenti per conoscere il potenziale culturale italiano, forse non è nemmeno colpa loro se non sanno cosa perdono”.

Il dietro front di questi giorni tra sindacati e Fondazione dimostra che le decisioni si prendono sempre dentro stanze segrete, intorno a quei famigerati tavoli delle trattative dove non si sbatte più nessuno. Nemmeno i pugni.

Intanto anche qui i sindacati si spaccano e il lavoro non è uguale per tutti.

Intanto continuano a ripeterci che i costi vanno ridotti (ma va?) ma il musicista anonimo aggiunge che vanno ridotte anche le figure duplicate e replicanti dentro l’organico dell’Opera con una gestione del personale che con la nuova governance ha dovuto spostare l’allora direttore ad altra funzione (lui al riparo grazie ad un contratto blindato cinque anni più cinque per 90.000 euro annui che nessuno si è sognato di togliergli) per far entrare come nuovo direttore del personale un uomo di fiducia di un consigliere della Fondazione, guarda caso sempre a 90.000 euro annui. Per non parlare degli uffici produzione e dell’organizzazione interna del lavoro e dei costi dei registi e degli allestimenti.

Da alcuni giorni sembrano tutti convinti che la salvezza dell’Opera di Roma passerà attraverso un nuovo concetto di produttività: viene da ridere quando spacciano per soluzione la base di una corretta gestione aziendale.

“Ci dicono che dovremmo suonare di più. Noi siamo musicisti che facciamo il nostro lavoro e se il Teatro o chi altro non ci mette in condizione di lavorare sulla base di programmazioni articolate e sensate, noi non possiamo produrre di più”.

Insomma, nei giorni scorsi stava per venire giù un muro al Colosseo mentre tutti guardavano a Berlino.

Stefania Zolotti
Direttore Responsabile "Senza Filtro - Notizie dentro il Lavoro" Giornalista, autrice, esperta di comunicazione aziendale

2 Commenti

  1. Brillante sintesi: ad ogni notizia che non vorrei sentire, chiedo con più forza di conoscere quelle verità celate…
    “Verità” dei pochi, che si nascondono tra i non detti, i club, i ristoranti di lusso o i voli privati intercontinentali.
    Quando il musicista di turno – ma potrebbe benissimo essere il dipendente, il neolaureato, l’attrice, la segreteria o la casalinga – non sarà più a rimetterci?

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