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Smart working: va bene, ma rischiamo di “perdere” il capitale umano

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Il momento difficile che stiamo vivendo ha imposto alle aziende profonde trasformazioni. La pandemia Covid-19 ha cambiato non solo le abitudini quotidiane della vita privata, ma soprattutto quella lavorativa e le aziende di tutto il mondo si sono ritrovate dalla sera alla mattina a trasferire le attività a casa dei propri collaboratori.

E’ smart working per tutti, salvo per gli imprenditori che per garantire continuità alle proprie aziende devono inevitabilmente presidiare le sedi. Numerosi dibattiti si sono aperti sul tema. C’è chi è a favore dello smart working e chi no.

È vero che lo smart working ha contribuito a salvare il lavoro?

Durante il primo lock-down, sono stati almeno 1,8 milioni i lavoratori che hanno potuto svolgere la loro attività da remoto, grazie alle reti di telecomunicazioni e ai dispositivi che li hanno abilitati. Una grande soddisfazione per chi, come me, è un fervente sostenitore del mondo digitale e delle potenzialità che ha dischiuso per gli individui, le imprese e la società. Tuttavia, è necessario fare alcune precisazioni.

Non è una questione di schieramento di fazione, smart working si o no.

La precisazione da fare è che nella stragrande maggioranza dei casi non è di smart working che stiamo parlando, ma di lavoro da remoto.

Non è un caso che l’espressione che utilizziamo in italiano non esista affatto in inglese, e non venga utilizzata fuori dai confini nazionali: più realisticamente, all’estero, e in particolare negli Stati Uniti, si parla di WFH, working-from-home, oppure di remote working, mettendo a fuoco il fatto che l’attività lavorativa viene svolta fuori dagli uffici, dalle aziende, dalle imprese, dai luoghi di aggregazione tradizionalmente deputati a questo scopo. Focalizzare il problema in questo modo ci aiuta a leggere il reale fenomeno: il lavoro da remoto ha i suoi pregi, ma anche i suoi difetti, che vanno dall’energia mentale necessaria ad affrontare una giornata di videoconferenze al pericolo della perdita di confini tra vita domestica e vita lavorativa, fino al tema che mi sta più a cuore: l’inserimento di nuove risorse nell’organizzazione, che richiede un processo di onboarding fatto di incontri, di opportunità e di scambi solo molto parzialmente sostituiti dalle features di videocomunicazione.

Le aziende sono fatte di persone e la centralità delle stesse è il valore più prezioso per le aziende. Da questo avverto fortemente il rischio di dissipare energie preziose per le organizzazioni in questo momento.

Di nuovo, non è questione di essere pro o contro lo smart working, ma di capire se stiamo parlando di una nuova modalità organizzativa, che rivoluziona processi e gerarchie imponendo l’assegnazione, il monitoraggio e il controllo di obiettivi a prescindere dal luogo e dal tempo in cui vengono perseguiti; o se semplicemente si tratta della misura di emergenza, supportata dalle tecnologie digitali, che ci consentirà di proseguire almeno in parte le attività a distanza. In questo secondo caso, che mi sembra il più vicino all’esperienza che stiamo vivendo, dobbiamo essere consapevoli non solo di quello che guadagniamo, ma di quello che rischiamo di perdere.

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