Affrontare la crisi con il Total Quality Management
In una fase come quella attuale, caratterizzata da profondi mutamenti della realtà che ci circonda, sempre più difficile e complessa da interpretare, avvertiamo tutti un certo disagio; a maggior ragione, chi opera sul mercato e deve ogni giorno trovare rapidamente le risposte giuste per inseguire i propri obiettivi e garantire la sopravvivenza della propria impresa e dei propri collaboratori.
Tutti noi ci domandiamo quali strade individuali e collettive possono condurci a non subire i cambiamenti, ma a gestirli e, possibilmente, utilizzarli al meglio per i nostri scopi. Quando i mutamenti di scenario sono troppo rapidi e impegnativi, la tentazione iniziale di sconforto, di abbandonare la barca alla deriva e non rimetterci più in discussione, può essere una prima comprensibile reazione, ma non è in alcun modo accettabile, perché destinata ineluttabilmente ad un epilogo fatale. Dopo l’iniziale disagio inizia fortunatamente a far capolino in noi come una scossa, una strana voglia di energia positiva che ci apra il cuore e la mente verso qualche intuizione amica che ci mobiliti verso il cambiamento. E’ allora che ci votiamo alla ricerca di qualche esperienza coinvolgente, di qualche felice intuizione che ci restituiscano l’entusiasmo e le emozioni di quando abbiamo avviato l’impresa o l’abbiamo ereditata dai nostri genitori, prendendo sulle nostre spalle la responsabilità di non vanificare i loro sacrifici, e di perpetuare i loro sogni. Unitamente a questa specie di fermento innovativo, tutti noi che operiamo nelle logiche e nella cultura d’impresa siamo affezionati a modelli, teorie, metodologie di pensiero e di lavoro che ci hanno dato molto fin qui. Ora che la realtà corre e cambia, che il disagio aumenta, le sfide si fanno sempre più difficili, dobbiamo metterci alla ricerca di nuove prospettive e vie d’uscita, meno tradizionali e più innovative. Ed è così che trova spazio in noi una minore indulgenza verso le strategie e le leggi economiche di cui siamo stati attori per molto tempo. Abbiamo agito molte sfide e raggiunto molte vittorie, ma ora è indispensabile modificare qualcosa perché non si può risolvere il problema con la stessa mentalità che l’ha generato.
Paradossalmente, è proprio in questi stati d’animo, apparentemente negativi, ma intimamente fertili, che si creano le premesse per il cambiamento, ed è proprio in questi momenti di passaggio da una fase ad un’altra che si presentano le migliori vie d’uscita. La fase che stiamo vivendo è caratterizzata, come accennato in premessa, dal superamento dei valori tradizionali di prestazioni del prodotto, competitività del prezzo, individuazione dei mercati, non perché questi valori non siano più importanti, ma perché stanno diventando patrimonio comune a tutte le imprese, quindi necessari ma non sufficienti per essere competitivi. Emergono invece nuovi valori caratterizzanti la competitività che sono prevalentemente di natura soft, che aggiungono valore al prodotto trasformandolo sempre più spesso in un prodotto o in un servizio più personalizzato. Appartengono a questa categoria concetti nuovi, anche se ormai diffusi, come l’offerta di soluzioni ai problemi dei clienti piuttosto di prodotti, l’ascolto della qualità percepita dal cliente, l’individuazione della qualità attesa. In questa fase, la qualità è certamente una delle leve – forse quella decisiva – per la competitività delle imprese e dei sistemi economici. Una qualità che va intesa in senso totale: qualità del prodotto e dei sistemi produttivi; qualità delle imprese e dei sistemi di imprese; qualità del comparto industriale che deve interagire con la qualità del sistema distributivo, dei servizi, delle infrastrutture e dell’amministrazione pubblica.
Sul versante specifico dell’impresa, ciò significa che la qualità non può riguardare solo una specifica fase, ma coinvolgere tutto il processo precedente e successivo a quello analizzato. In altre parole, la qualità del prodotto finale non é altro che la somma della qualità realizzata in tutte le fasi che precedono (es. progettazione, scelta dei materiali, rete dei fornitori, scelta delle tecnologie) che realizzano (impiego delle tecnologie, organizzazione del lavoro, gestione dei processi, definizione e monitoraggio dei target) e che distribuiscono (stoccaggio, trasporto, distribuzione, marketing, vendita). Per vincere la sfida c’é pertanto bisogno di un salto culturale dell’intera azienda, che investa tutti, dalla proprietà al management, dai fornitori ai clienti, passando per il personale tutto e per l’organizzazione micro e macro.
Ciao Alberto.
Noi non ci conosciamo.
Sono quasi venti anni che giro per le aziende marchigiane cercando di introdurre e far vivere i concetti che sostieni con grande entusiasmo.
Il loro (temporaneo) successo – quando c’è stato – è stato funzionale a fare bella figura in caso di visite di importanti committenti, così da guadagnare posizioni nell’albo fornitori.
E limitatamente ai settori automotive ed elettromeccanico, naturalmente.
Poi, finita la festa, gabbato il santo.
Dal TQM in poi, varie tecniche e filosofie si sono imposte: Six Sigma, Lean Manufacturing, FMEA – FTA e chi più ne ha più ne metta.
Io ho maturato l’impressione che ai nostri imprenditori non gliene freghi proprio nulla, fatto salvo il caso di cui sopra.
Al massimo qualcuno ti dice: vai avanti tu, ti metto a disposizione Rsponsabile di Produzione e Responsabile Qualità per qualche ora alla settimana. Il tutto a budget prossimo allo zero.
Tanto, chi risolve tutto è il fiscalista che non mi fa pagare le tasse…
Aspetto smentite.
Domenico
Beh, ho visto situazioni in cui l’aspirazione dell’imprenditore era soprattuto di far pagare a fondi regionali e comunque pubblici ore proprie o del proprio personale, anziché della consulenza qualificata: insomma, aveva bisogno di una testa di… legno!
Ma conosco anche situazioni di aziende medio-piccole in cui la proprietà ha capito davvero il vantaggio di aprirsi al nuovo (almeno per loro: con nuovo intendo tqm o lean o six sigma o toc o process mapping… so benissimo che parliamo di decenni e decenni di storia industriale), in un ottica di competitività a medio e lungo termine, indipendentemente da un risultato immediato, spesso poco misurabile in termini di saving vs cost. Conosco imprenditori che hanno capito il vantaggio di una crescita organizzativa e culturale dei propri collaboratori.
Isole felici? Certamente sì, rispetto alle decine di migliaia di certificazioni ISO qualcosa, ottenute da enti certificatori dai nomi fantasiosi, accreditati non si sa da chi, con manuali copia-incollati da altre aziende, grazie a “consulenti” pagati un tanto a pagina! Fortunatamente queste isole felici ci sono e devono essere valorizzate, rispetto all’opportunismo miope della maggior parte dei casi.
Giorgio
Ciao Tommaso, non ci conosciamo eppure mica siamo tanto lontani (Senigallia).
L’entusiasmo per il modello che utilizziamo parte da lontano….diciamo anni novanta quando lavoravo in Telecom (Qualità) e si utilizzava il famoso EFQM adattissimo ad un’Azienda di servizi. In effetti, non l’ho mai abbandonato anzi l’abbiamo adattato alle realtà cooperative dove la centralità delle persone è fortemente prevalente. Ma una volta introdotto, dura? Dipende. Se il management ha interiorizzato l’approccio la TQM rimane; noi abbiamo delle cooperative che da oltre dieci anni sondaggiano periodicamente personale e utenza. Vuol dire che qualcosa abbiamo fatto….ma non solo in cooperativa perchè abbiamo di recente calato la TQM nel retail, dato l’affanno in cui verso il commercio al dettagio, puntando direttamenete sul processo di vendita. Se tu vuoi leggere qualcosa in proposito vai al link: http://www.viveresenigallia.it/index.php?page=categorie&id=96. Ti saluto cordialmente. Alberto
carissimi, l’argomento “Qualità” è il leit motif della mia adesso decennale vita professionale, visitando aziende toscane. Niente di nuovo sotto il sole: apparenza di sistema, sostanza di antisistema, imprenditori interessati solamente all’aspetto commerciale, disinteressati del resto. è una filosofia difficile da far comprendere, a patto che già non sia latente e pronta ad esplodere se adeguatamente stimolata. Cambiamenti radicali pochi. Eppure è sicuramente uno dei fondamenti de successo. Vedremo se dopo questa crisi, che ha ed avrà falcidiato sicuramente tanti di coloro che fanno impresa col modello degli anni 70, le cose cambieranno. Una cosa è abbastanza coerente: piccole imprese non fanno qualità, sopravvivono. Le grandi non fanno qualità perchè non siamo capaci a costruirle.
C’è un fattore da considerare, e che sempre più si sta imponendo. In passato diveniva imprenditore l’uomo che si faceva da sé, che trasformava la sua attività artigianale in impresa strutturata, quasi senza rendersene conto. Questo formula si è andata via via esaurendo. Oggi è diventata sempre più decisiva l’ultima “P” di Kotler: la Politica, intesa come sistemi di relazioni forti che portano direttamente ai decision makers.
Chi ha fatto impresa col modello degli anni 70 (o 60, o 50…) muore perché il mercato lo ha già fatto fuori e gli ultimi treni sono passati da un pezzo. L’imprenditore della nouvelle vague (ce ne sono più di quanto si pensi), nasce con la forza dell’ultima “P”, così è certo di essere intoccabile. E non ha nessuna intenzione di lavorare secondo criteri manageriali (o, meglio: ha i suoi criteri), in quanto: 1) opera pressoché fuori concorrenza; 2) sa che il business dura poco, così munge la vacca finché dà latte.
Se parliamo delle grandi imprese, queste fanno la “loro” qualità ed impongono i loro standard alla supply chain. Alcune operano con coerenza; altre hanno i piedi d’argilla, ma brandiscono la qualità come strumento di negoziazione per tenere sotto scacco il fornitore (non bastassero prezzi bassi ed i margini sempre più risicati…). Potrei raccontare un po’ di aneddoti su “grandi” che predicavano bene a razzolavano malissimo.
La domanda che pongo a Massimo, ma che ci poniamo tutti da tempo è: quanto durerà questa crisi? e che cosa si lascerà alle spalle?
Evitando di scivolare verso i massimi sistemi, mando un saluto ed un augurio di Buone Feste a tutti.
Quanto durerà la crisi? ottima domanda o domanda scontata, dipende dai punti di vista. Intanto: cosa intendiamo per Crisi? Lo stato di speculazione finanziaria corrente? Fino a che le risposte politiche saranno disgiunte e poco credibili, andremo avanti così, sull’ottovolante. Crisi d’impresa? Qui l’argomento territoriale ovviamente la fa da padrone, ma esempio assurdo è l’indelicato confronto Italia Germania (per rimanere in europa): aziende qualitativamente molto evolute tedesche contro sistemi di impresa (mah) all’Italiana. Devo essere sincero: il fare “rete”, humus anche del nostro FdR, in taluni casi mi fa restare perplesso. Dalla crisi si esce con la crescita, e quest’ultima cosa è se non l’aumento della dimensione e della relativa massa critica delle imprese, su cu fondare una consapevolezza sociale maggiormente garantita? Io abito a Prato, che negli anni 80 spendeva e spandeva a più non posso, terreno imprenditoriale fatto da miriadi di minimprese. Oggi: la desolazione e la decadenza, già che la recessione è da parecchio passata. Dalla crisi ne usciamo se usciamo dalla crisi di valori, che in Italia sono l’individualismo, il furbismo (legato alla 5^ P di Kotler). etc. Non vi è una data, ma spero che gli scossoni che stiamo vivendo la avvicinino.