Facebook, ovvero l'imprudenza (di un macchinista)
Mentre scrivo questo post, Francisco José Garzon Amo – il macchinista del treno Renfe deragliato mercoledì a Santiago di Compostela in Spagna e accusato di omicidio per imprudenza – è chiamato a testimoniare davanti al giudice che dovrà decidere se confermare o meno l’accusa e, nel caso, trattenerlo in custodia o rilasciarlo su cauzione.
Per ora mi interessa però riflettere sul prima e non sul dopo. Anzi, mi interessa riflettere sul come.
In questa storia, imprudenza è un termine che ad effetto domino tocca una serie di soggetti a titoli diversi e a livelli distinti. Una matrioska di imprudenze.
Questa, come altre purtroppo, è una tragedia annunciata platealmente. Abbiamo visto tutti, in questi giorni, la foto del tachimetro che lo “spaccone” (tutti i quotidiani italiani lo ritraggono così, pare) aveva pubblicato nel 2012 sulla sua pagina Facebook per vantarsi dei limiti di velocità abbondantemente superati.
A me vengono i brividi e mi vengono perché oltre ai post del macchinista ho letto i commenti dei suoi “amici” che condividevano con lui sorrisi, sfide e destini di altre vite.
Mesi fa su Facebook Francisco postò una foto (poi rimossa) del tachimetro del treno a 200 km/h. Allo stremo. E scrisse: «Sono al limite non posso andare di più». Un commento: «Ma se vai a 200». E lui: «Ma il tachimetro non è truccato». Alla conversazione si aggiunge un terzo: «Se ti becca la Guardia Civil (la polizia spagnola) rimani senza punti». Infine, una battuta di Garzon: «Che bello sarebbe andare in parallelo alla Guardia Civil e superarli facendo saltare l’autovelox. Ah ah, che bella multa per Renfe».
Ecco, proprio di Renfe e di altre aziende vorrei parlare.
Ormai si sa, Facebook ha illuso i suo iscritti di poter raccontare e postare qualsiasi cosa, dimenticando perfino ingenuamente di avere responsabilità, professioni, ruoli e doveri.
Ma allora perché non ne approfittano anche le aziende per monitorare i propri collaboratori a cui affidano mansioni o servizi pubblici che coinvolgono la sicurezza e la salute della comunità?
Forse sarebbero test più attendibili di colloqui attitudinali e verifiche psicologiche.
Perché nella bolla social, nessuno o quasi si vergogna più di mettere in piazza chi è davvero (o chi è per finta). Certo diventerebbe complesso chiedere alle aziende di iniziare a mappare tutti quanti e forse si potrebbero alzare anche gli scudi della privacy e del confine tra vita professionale e vita privata. Va bene, ci può stare.
Però che dire, allora, degli “amici” che abbiamo su Facebook e che dalla mattina alla sera è tutto un like, anche quando si tratta di temi seri o violenti o pericolosi?
Al giudice che sta interrogando Garzon Amo mi piacerebbe dire che l’imprudenza è un’aggravante di cui ci sporchiamo tutti, ogni giorno, quando applaudiamo agli inchini da brivido al Giglio o quando alziamo il pollice per sottintendere “anch’io” o quando non approfittiamo delle piattaforme social per capire chi sono le persone che lavorano per noi o che abbiamo accanto.
I like più identità personale e meno inerzia dentro quel mondo pieno di potenzialità che hanno chiamato Face-book (ma la faccia, in fondo in fondo, non ce la mette quasi nessuno).
Ritengo Facebook uno dei migliori specchi dell’essere umano moderno. La mia esperienza professionale mi fa peraltro certificare che, ancora oggi, non in tutte le realtà aziendali venga considerato come un canale di valutazione nel processo di selezione. Certo, molto di una persona lo si comprenderà e conoscerà in sede di colloquio ma, personalmente, ho trovato proprio dai profili FB ottimi spunti da utilizzare in quella sede.
Questo post mi lascia francamente perplesso.
Si parla di una “tragedia annunciata”, ma prima ancora delle foto su Facebook a me viene da chiedermi “Possibile che un treno sia passato varie volte da un punto pericoloso al doppio della velocità consentita, e nessuno si sia mai accorto di niente?”
Credo che la tragedia fosse annunciata prima di tutto dal pericoloso, diffuso lassismo di cui tutta la storia sembra “puzzare”.
Ma ciò che mi rende perplesso è la proposta di Facebook come possibile “specchio”: fra tutti i vari social, è quello dove l’effetto “mascheramento” è più diffuso, dove più che “quel che si è” viene reso pubblico “quel che si vorrebbe essere” (a volte) e molto più spesso “quel che vorremmo gli altri pensassero che siamo”.
Chiedo: chi non ha almeno una volta alzato gli occhi al cielo in cerca di pazienza di fronte ad un post estremamente infantile, o eccessivamente serioso, o forzatamente passionale pubblicato da una persona che (dal vero, e professionalmente) conosciamo per assolutamente valida?
E sulla base di questo, sulla base di un commento fatto nella illusoria certezza che solo alcuni leggeranno, dovremmo “trarre considerazioni”?
Credetemi, non si salverebbe nessuno: la pochezza del mezzo, e la propensione umana a decontestualizzare lascerebbero ben pochi “profili” al riparo da giudizi ben poco lusinghieri.
Sul test psicologico, infine.
Uno strumento si può definire tale solo in presenza di due condizioni ben specifiche:
1) validazione;
2) somministrazione da parte di un esperto, abilitato;
A mio parere, nel caso in esame è mancata una sorveglianza anche minima, ma sicuramente può darsi che ci sia stata ed abbia fallito. Resterebbe comunque uno “strumento”, con regole e limiti, ben diverso dalla “interpretazione” (su quali basi? il senso comune… ma di chi?)di un social.
Proprio perchè, e su questo concordo pienamente, la “faccia” non ce la mette nessuno.
ps: Michele, perdonami, non ci conosciamo ma il tuo intervento mi suscita ulteriori perplessità: parli di spunti per il colloquio tratti da FB. Di che tipo? Reperiti come, sapendo che le cose molto private di solito non sono raggiungibili a tutti i contatti, o addirittura ci può essere qualcuno che nemmeno le pubblica? Voglio dire: avrei capito il commento legato a LinkedIn, dove lo scopo dichiarato è “farsi conoscere e apprezzare”. Ma lo “scopo dichiarato” di Facebook…?
Il mio sasso di ieri nello stagno ha mosso alcuni spunti che mi stuzzicano, grazie Stefano e Michele.
Essere e voler essere: non c’è dubbio che FB viva su questo assurdo crinale.
A me la riflessione dopo la tragedia è venuta perché sono sempre più frequenti i casi di profili con post e immagini alquanto significativi della propria personalità (a volte anche il mostrare ciò che non si è, da leggere come ambizione o delirio) che forse andrebbero controllati con un occhio più critico della semplice inerzia del navigatore.
Del resto, parliamoci chiaro: se, come ci informano costantemente gli organi di polizia, i ladri sono i maggiori fruitori delle milioni di informazioni private che tutti postano h24 su FB, perché non se ne servono intelligentemente anche le aziende?
Dai dati di un’indagine condotta dalla compagnia di assicurazione “Legal & General” su 2.092 utenti dei social network, risulta che circa quattro persone su 10 (il 38% degli utenti di siti come Facebook o Twitter) pubblicano i dettagli dei piani di vacanza e il 33% scrive se si sposta per il weekend!
E’ vero, Stefano, che spesso chi scrive di se’ enfatizza ciò che non è o ridimensiona ciò che è. Vale però la pena riflettere sulle potenzialità che uno strumento social usato come puro (e spesso inutile) passatempo può invece offrire con altre chiavi di lettura, socialmente più funzionali.
Cambiando l’ordine degli addendi forse il risultato cambia.
@Stefania: Facebook si basa sui contenuti prodotti o riproposti dalle persone, è un fatto.
Quali potenzialità per questi contenuti? Indicazioni sulle preferenze di acquisto? Certo. Percezioni legate ad un brand specifico? Sicuramente.
Dove secondo me il ragionamento non fila è nell’idea di voler trarre inferenze “altre” da questi dati.
Ho un amico che va regolarmente a correre in moto su pista: se domani resta coinvolto in un incidente, è automaticamente colpa sua perchè gli piace correre? Oppure è automaticamente “scagionato” perchè in qualità di esperto è assolutamente padrone del mezzo?
Il rischio che vedo legato attualmente ai social network è lo stesso connesso ad ogni cosa nuova: si pensa di poterci fare un po’ tutto, magari semplificandoci la vita.
“Ma se la pagina Facebook del conducente fosse stata monitorata…” Sì, d’accordo, così come se fossero stati impiegati altri meccanismi di controllo che sono evidentemente, colpevolmente mancati.
Ritengo che una riflessione sulle potenzialità degli strumenti “social” non possa mai essere disgiunta dalla consapevolezza dei loro limiti, e di quelli di chi eventualmente li interpreta.
Altrimenti si rischia di far cambiare il risultato perchè si è cominciato a sommare le mele con le pere.
Rispetto al fatto che le aziende monitorino i profili dei loro dipendenti non sono d’accordo.
I motivi sono molti.
In primo luogo credo debba esistere uno spazio di libertà di espressione in cui l’azienda non deve entrare. Ovvero se io voglio dire alla persone della mia rete che il mio fidanzato mi ha lasciato, sono libera di farlo. Probabilmente lo sapranno anche i colleghi, ma è una mia libera scelta.
Non devo necessariamente dirlo al direttore del personale.
Il mio orientamento politico o sessuale, la mia voglia di sostenere una causa civile oppure di postare foto in vacanza con gli amici non devono interessare l’azienda in cui lavoro.
Ravvedo in questo interesse un potenziale altissimo di discriminazione.
Questo se anche i profili fossero realistici. Molti non lo sono, esistono non per comunicare qualcosa di sè, ma per giocare su se stessi.
Quindi darebbero informazioni inutili, contraddittorie o sbagliate.
Poi immagino la nuova figura professionale “lo spione”, che sarà certamente un HR incaricato di verificare…. cosa?
È davvero incredibile come abbiamo negli anni costruito un immaginario collettivo di fb ad immagine e somiglianza, però, dei nostri desideri.
Crediamo di essere liberi e non osservati da nessuno, li dentro. O, meglio, crediamo di essere visti solo da chi vogliamo. Sappiamo tutti che non è così. Anch’io non ho tra i miei “amici” i colleghi di lavoro e resto ferma su questa linea.
Il mio fin dall’inizio era un discorso legato però al senso di responsabilità di chi usa fb e di chi legge o commenta su fb.
Credo che se fossimo in una piazza cittadina e vedessimo un pazzo correre a tutta velocità, ci spaventeremmo moltissimo tutti quanti e cercheremmo di fermarlo.
Su fb si corre e si ammazza ma il dramma e la paura si sentono poco, pochissimo, ma tutto “ci piace”.
Io mi riferivo comunque a controlli aziendali su chi riveste ruoli di responsabilità in aziende che offrono servizi pubblici o medici o qualsiasi altra tipologia di lavoro che abbia in carico la vita di altri.
Scusa il ritardo con il quale rispondo al tuo ps Stefano (spero di avere presto il piacere di incontrarti).
Ti porto un solo esempio, il primo che mi torna in mente. Selezionavo uno stagista, avevo una serie di cv da colloquiare, cerco i profili in rete e di alcuni trovo la pagina FB open. Tra gli altri, uno dei candidati aveva online una forte presenza politica che a volte sfociava in espressioni fortemente critiche verso la precarietà (non voglio qui approfondire il suo poter essere buona o cattiva) ed in particolare le APL. Puoi ben comprendere che in sede di colloquio questi aspetti vennero fortemente approfonditi.
Ilaria scrive che quanto scrive nel suo profilo non deve interessare al datore di lavoro. C’è un problema però: se mi “espongo” e rendo pubbliche le mie informazioni online non posso poi pretendere che nessuno le guardi. Non si può voler essere famosi e poi prendersela coi paparazzi.
Ciao Michele!
Non preoccuparti del ritardo, e grazie della risposta.
L’esempio che porti mi permette di comprendere meglio la tua valutazione… d’altra parte se un pagina è “open” non posso aspettarmi che non venga letta.
E’ anche vero che la pagina open è solitamente un caso.
Nel caso di pagina chiusa, cosa fare? Chiedere l’accesso ai dipendenti o addirittura ai candidati mi sembra un’azione decisamente “rischiosa” per l’azienda a livello di immagine, proprio per non generare l’idea di essere indebitamente “spiati”, e discussioni sulla legittimità di questa azione sono in corso (http://www.wired.com/threatlevel/2013/01/password-protected-states/, giusto come esempio).
Senza contare che, tralasciando gli aspetti legislativi e legali… quanto tempo ci metterebbero le persone a crearsi un “doppio profilo” sotto pseudonimo, riservando quello più personale ad una ristretta cerchia di amici e magari “abbellendo” quello pubblico ad uso e consumo del potenziale datore di lavoro?
Per tenere viva la discussione, copio il link ad un articolo che riassume alcuni casi concreti (esteri) ben allineati col nostro dibattito sull’utilizzo di Fb da parte delle aziende (soprattutto perché si parla di profili FB aperti).
http://www.ictbusiness.it/cont/news/come-farsi-licenziare-con-facebook/26748/1.html
Quello che io mi chiedo è: ma le persone non sanno usare Fb (cioè usano profili open senza saperlo) o sono così ingenue?
Nei casi citati, effettivamente, risulta difficile dare torto alle aziende o ai datori di lavoro.