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La psicologia del manager: meglio introverso o egocentrico?

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Vorrei segnalare l’interessante articolo di FEDERICO PACE pubblicato nella sezione MioJob di Repubblica.it perchè può dare il via ad una interessante discussione sulla figura del manager e sui tratti caratteriali che più è richiesto mostrare – magari anche andando contro la propria natura – per apparire adatti a ricoprire certi ruoli.

“In tempi di crisi, e non solo, un capo espansivo, egocentrico e assertivo non è più il migliore dei capi possibili. Per i ruoli di responsabilità, almeno se tra i suoi collaboratori ci sono persone con una certa voglia di fare e intraprendenza, sono più adatti gli introversi e i pensosi. Proprio quelle figure che, in maniera piuttosto sommaria, fino ad ora venivano considerate inadeguate. Perché, si diceva, incapaci di motivare, dare slancio e ottimismo. Niente di più falso. Niente di più superficiale. Tutti quelli che hanno la tendenza a comportarsi con atteggiamenti che attraggono l’attenzione degli altri, alla resa dei conti, non sono poi così in grado di coordinare e trarre il meglio dai collaboratori.

Più Mahatma Gandhi che Berlusconi. Più Socrate che Nicolas Sarkozy. I grandi leader, quelli che sanno essere efficaci, si direbbero tranquilli e riservati. E’ questo che gli permette di convincere davvero le persone e conseguire importanti risultati. A siglare una sorta di addio ad una serie di luoghi comuni, di cui per anni, più o meno consapevolmente, molti sono stati vittime, è uno studio realizzato da tre ricercatori che arrivano da Harvard e Wharton, ovvero due tra le migliori scuole di business del mondo. Lo studio, pubblicato sulla rivista specializzata Academy of Management Journal, tra le più citate dalla stampa mondiale, ha indagato come alcuni tratti, considerati fino ad oggi come intimamente correlati alla leadership, non siano in realtà in grado di assicurare un incremento di produttività di un gruppo di collaboratori intraprendenti e capaci.

La distanza tra la percezione e la realtà. In particolare, i tre studiosi, sulla linea aperta da alcuni recenti studi, hanno inteso scindere l’effetto alone (tutto quello che gli altri percepiscono, o credono di percepire) di un capo carismatico e assertivo dall’impatto concreto sull’operatività delle persone da loro coordinate. Per questo hanno introdotto, nell’analisi, per capire meglio gli effetti e le circostanze, anche la variabile della intraprendenza dei subordinati e dei collaboratori del capo-ufficio.

Hanno così concentrato l’attenzione su come i leader, dominanti e loquaci, influenzano le performance, in positivo o in negativo, dei gruppi che coordinano al variare delle caratteristiche di chi compone questi gruppi. Per capire se la “macchina” aziendale, al di là delle apparenze, va più veloce se è guidata da un capo carismatico, un tipo estroverso, o se invece è meglio se a tenere in mano il volante è uno che ha tra le sue caratteristiche l’introversione, la riflessività e la pensosità.

Gi esperimenti. A partire da quella che può essere una definizione di estroversione (“la tendenza a comportarsi in modi che attraggono l’attenzione sociale”), i tre hanno condotto un paio di esperimenti. Nel primo hanno misurato la produttività di gruppi di lavoro di 130 punti vendita di un’azienda statunitense di consegna di pizza a domicilio. Ebbene, quelli guidati da responsabili estroversi e espansivi raggiungevano i migliori profitti quando i dipendenti erano caratterizzati in maniera significativa da tratti di passività e remissività. Il contrario, quando invece erano in presenza di intraprendenza. Un secondo esperimento, condotto in “laboratorio”, ha coinvolto 163 studenti che hanno replicato un modello di gruppi di lavoro. Si è avuta la conferma che i gruppi passivi migliorano le loro performance quando a guidarli è un estroverso. Al contrario i collaboratori caratterizzati da proattività e intraprendenza raggiungono i risultati peggiori quando sono guidati proprio da leader egocentrici.

Suggerimenti e cambiamenti. Se si è estroversi è molto probabile che si diventerà dei leader. E’ innegabile. Ma tutto ciò, e ne abbiamo qualche conferma in molte realtà a portata di mano, non vuole dire che si sia capaci di contribuire positivamente alle performance del gruppo che si coordina. A queste tipologie di manager, dicono gli studiosi, manca la capacità di assorbire i suggerimenti utili che arrivano dai coordinati, rendere legittimi i tentativi di sostenere e implementare i cambiamenti e prendersi carico delle iniziative per migliorare le strutture di lavoro. O almeno, i collaboratori hanno la chiara percezione che i loro consigli non verrebbero ascoltati. E di fatto, così, non si prendono neppure la briga di farlo.

Il modo di mantenere l’influenza. I capi “estroversi”, dicono gli autori della ricerca, tendono a preferire quello status che gli permette di mantenere una gerarchia in cui la loro assertività è “completata” dall’obbedienza e dalla sottomissione da parte degli impiegati. In generale, questo tipo di leader tende a esercitare la sua influenza non attraverso la ricerca delle idee degli altri, piuttosto attraverso la conquista del dominio sugli altri. Non il massimo, è chiaro, per la partecipazione e la produttività di un gruppo di lavoro nei contesti moderni aziendali.

Il talismano e lo stigma. In una delle analisi che negli anni scorsi, tra le tante, cercavano di individuare qualche legame tra la personalità e l’efficacia nella leadership si era concluso che l’espansività, “l’estroversione è la più consistente correlazione della leadership negli studi che definiscono i criteri della leadership”. Sono gli espansivi, concludeva la ricerca, quelli che più probabilmente emergono come leader nella selezione e nelle decisioni di promozioni e quelli che sono percepiti come più efficaci, sia dai superiori sia dai subordinati. Così, proprio l’espansività, nel chiuso delle stanze delle aziende, consapevolmente o meno, è stata a lungo la chiave, il talismano che apriva tutte le porte. E, all’opposto, l’introversione, la pensosità, una sorta di stigma da celare e nascondere.

Il paradosso degli uffici. A invertire la rotta avevano cominciato l’anno scorso altri tre ricercatori (Judge, Piccolo e Kosalka) con il loro studio, pubblicato sul The Leadership Quarterly, che indagava anche i risvolti negativi dei tratti del leader. Tra le loro conclusioni c’era quella che la percezione della capacità dei leader in realtà offuscava i dati obiettivi che i gruppi e le organizzazioni conseguivano. Così, eccolo il paradosso degli uffici moderni: le aziende vogliono capi espansivi e collaboratori intraprendenti. Eppure questa combinazione non è affatto la migliore. Almeno se si vuole guardare alle performance.

L’incertezza e le idee costruttive. In un contesto economico caratterizzato dall’incertezza, da cambiamenti repentini e dall’imprevedibile, dicono gli autori, è divenuto sempre più complesso per i leader conseguire un successo facendo “calare dall’alto” la loro visione agli impiegati. Così, proprio ora, i leader aziendali non si possono più permettere di sentire come “minacciose” le proposte di quei collaboratori più intraprendenti e partecipativi. Perché, anche loro, dipenderanno, è auspicabile, sempre più da quegli impiegati che vorranno partecipare ai processi decisionali con l’apporto di idee costruttive.”

LINK ALL’ARTICOLO:
http://miojob.repubblica.it/notizie-e-servizi/notizie/dettaglio/addio-al-capo-ufficio-egocentrico-ora-meglio-schivo-e-pensoso/3886462?ref=HREC1-7

2 Commenti

  1. Contrariamente a quanto descritto nel paragrafo conclusivo di questo articolo, mi pare che la tendenza delle imprese (anche se non soprattutto delle multinazionali) sia quella del micromanagement di ogni attività dei propri sottoposti (impiegati, per i manager; sussidiarie, per le aziende) nella speranza che l’utopia del controllo totale permetta di gestire il momento di crisi (dove per “gestire” si deve intendere, nella maggior parte dei casi, “porre attenzione al contenimento dei costi”).

    Le occasioni per i (wannabe)manager riflessivi e introversi sono, temo, ancora alquanto rare, soprattutto laddove il manager è visto/desiderato più come il Sandokan del caso che come il Beckenbauer della situazione.

  2. Secondo lo studio “Social Class, Contextualism and Empathic Accuracy” pubblicato sulla rivista Psychological Science (November 2010 vol.21 no.11) le persone provenienti dall’upper class – intesi sia come gli individui ricchi sia, e questo è qui rilevante, come chi possiede un’istruzione elevata e un’occupazione prestigiosa – sono molto meno empatici di chi appartiene alla lower class, cioè capiscono molto di meno le emozioni degli altri e sono meno capaci di collocare gli eventi nel contesto nel quale si verificano. Lo studio è composto da tre esperimenti condotti su circa 300 fra impiegati nelle università e studenti, chiamati a confrontarsi sulla percezione delle emozioni umane.
    In particolare i più istruiti, dai quali ci si attenderebbe una capacità empatica più profonda, sono anche i più piatti emozionalmente, come dimostrato dal test of empathic accuracy. Si rivela quindi sempre più accidentata la strada verso un management meno egocentrico…

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