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L’#attitudine imprenditoriale non è in #franchising…lo sanno anche i #cani

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Questo intervento potrebbe non essere considerato così strettamente attinente al franchising o alle reti commerciali in genere, ma, per darne un giudizio definitivo, occorre focalizzare l’attenzione alla “parabola” che giunge al termine di quanto descritto. Infatti, partendo dal presupposto che moltissimi sono convinti che, da un lato, entrare in una rete di franchising renda più facile essere imprenditori (ed è vero in senso generale), dall’altro moltissimi sono convinti anche di poter essere validi imprenditori senza avere la necessità di metodologie e sistemi di fare impresa indicati da altro soggetto, come nel franchising. Ma in questo ragionamento non possiamo non considerare anche la casistica di coloro che sono convinti che è possibile far parte di una rete di franchising senza seguire indicazioni e metodologie indicate dal franchisor o addirittura di farne parte e poi carpirne i “segreti”. Infine, altra situazione degna citazione, è quella inerente a quei franchisor che ritengono di poter essere titolari di rete senza che il loro sistema di franchising necessiti di una codifica delle modalità operative da trasferire agli aderenti alla loro rete, pensando di “non fare la differenza” (per chissà quale motivo).

Allora perchè questo intervento ? Oltre alle riflessioni che giungono da quanto sopra, l’intervento è effettuato essenzialmente per due motivi:

  1. le leggi carenti, o che non regolamentano specifiche situazioni, devono essere interpretate e questo si verifica da decisione di giudici. Non è un bene, perchè significa sostenimento di costi, anche in termini di tempo da dedicare per giungere alla conclusione della vicenda. Questa decisione, poi, crea anche un precedente cui possono poi tenere conto altri tribunali;
  2. il secondo motivo è la conseguenza del primo e, con riferimento al franchising, la casistica che giunge dai provvedimenti dell’AGCM e da alcuni tribunali italiani, imporrebbe di prestare attenzione alle lacune che la legge sta manifestando nella totale indifferenza di molti operatori, a differenza dell’associazione IREF Italia (insieme ad altri partners), lasciando titolari di reti e/o aderenti a reti in balia di tali decisioni.

Il caso è, quindi, un semplicissimo esempio che vuol racchiudere quanto descritto in apertura (attitudini imprenditoriali e metodologie assenti/presenti) e quanto indicato ai due punti precedenti (carenze normative).

Immaginatevi una famiglia…in vacanza…in montagna…in compagnia di un animale domestico…nello specifico un cane. Immaginatevi un hotel, non importa quante stelle, un bell’hotel in montagna. Immaginatevi che la famiglia abbia anche optato per il servizio di “pensione completa” o “mezza pensione”, non ha importanza.

A questo punto, la “tipologia di frequenza alberghiera” dei vacanzieri si concretizza anche in consumazioni di pasti/cene. Un giorno o una sera, non è dato saperlo, al termine del momento “ristoratore”, il capofamiglia, dotato di “doggy bag”, chiede al titolare/direttore/gestore dell’hotel di portare via il cibo avanzato e l’acqua rimasta nella bottiglia per poter erogare il tutto al proprio cane: ottiene il rifiuto.

I toni si alzano e, tra le parole pronunciate dal capofamiglia parte un “schifo”, proseguendo “addirittura” a ripetere il termine raccontando la storia ad un giornale locale.

Il titolare/direttore/gestore dell’hotel procede per vie legali e il tribunale di competenza condanna il capofamiglia per il reato di ingiuria e per il reato di diffamazione a mezzo stampa. La condanna d’ ingiuria viene confermata in appello, mentre è annullata quella per diffamazione, considerata un’espressione del legittimo diritto di critica.

Giunge la Cassazione che, con la sentenza n.29942 del 8 luglio 2014 assolve il capofamiglia in quanto «non punibile». La Cassazione spiega che al cliente doveva essere riconosciuta «l’esimente della provocazione» dal momento che la sua esternazione costituiva «l’effettiva e sostanzialmente immediata reazione ai disservizi subiti ed all’imposizione di regole», il divieto della “doggy bag” e di riempire la borraccia, «non irragionevolmente ritenute pretestuose ed ingiuste dall’imputato». Secondo gli ermellini ci si può giustamente sentire provocati «anche dalla lesione di regole comunemente accettate nella civile convivenza». Tra queste rientra l’usanza di portarsi via dal ristorante gli avanzi per il cane e di rifornire la propria borraccia in vista delle gite.

Adesso potete riflettere su quanto descritto in apertura e per contribuire al completamente delle vostre riflessioni, ne aggiungo una e immaginate quanta differenza di “imprenditorialità” può concretizzarsi tra un albergatore che assume un tale comportamento “negativo” ed un altro che, invece, non solo consente l’asporto del cibo, ma, magari lo promuove anche inserendolo nella sua comunicazione pubblicitaria e anche nel suo menù…e se a farlo è una rete di franchising ? E se la rete lo considerasse una vera e propria modalità operativa da seguire con costanza ? Ci siamo capito adesso, no ?

A proposito, dalla sentenza non sappiamo se protagonista era un capofamiglia in vacanza con al seguito la famiglia ed il cane…era per creare una atmosfera pubblicitaria e “vendere” meglio l’articolo che state leggendo !!!

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