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Nobìlita 2020, l’altra faccia delle parole

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Cognome, anzi no, Nome.

“Come ti chiami?”

“Mattioli”. Fila M-Z.

Sbagliato! La fila al check-in a Nobìlita Festival 2020 era organizzata per nome.

Il giorno dopo il festival in un post su LinkedIn Andrea Mattioli, membro dello staff di Nobìlita Festival insieme a me e a tanti altri, raccontava come l’aver organizzato l’accoglienza dei partecipanti per nome e non per cognome avesse reso necessaria una strategia (avvisare le persone, diventare “uomo-cartello”) per aiutare le persone a non finire nella fila sbagliata.

Andrea Mattioli, l’uomo – elenco!

A dire il vero, tutti gli anni e a tutti gli eventi di FdR ci ritroviamo con le liste ordinate per nome e non per cognome. È una predilezione di Osvaldo Danzi preparare le liste così, chiamando le persone per nome. Seguono tra noi invariabilmente varie discussioni – di solito immediatamente prima di andare “live” ai nostri eventi – di come sia scomodo al check-in gestire l’arrivo delle persone con liste così fatte.

Andrea faceva notare che per presentarsi allo sportello giusto le persone dovevano uscire da uno schema generalmente ben radicato e impostato, dalla prassi consolidata di farsi chiamare per cognome. Mettersi nella fila giusta era un esercizio di attenzione e presenza alle condizioni al contorno, un far caso al significato delle parole “in fila per nome”.

Nobìlita in un certo senso ha così iniziato fin da subito a creare un po’ di scompiglio, a mostrare l’altra faccia delle parole.

Lo scompiglio, mentre le persone cercavano di organizzarsi all’ingresso, regnava sovrano anche nel resto dello staff. Quest’anno per via della pandemia non sono state possibili le prove generali, molte cose sono state organizzate sul campo, e i banchetti con il plexiglass si spostavano nell’atrio dell’auditorium ancora mentre attaccavamo i cartelli, sistemavamo le vele, disponevamo le magliette, ripassavamo la scaletta e iniziavamo a salutare i primi ospiti.

Tutto, alla fine, è filato liscio.

Smart, anzi no, Aspro.

All’incirca verso le nove, quando le persone stavano già prendendo posto in auditorium e il caos mi sembrava all’apice tra noi dello staff, non sapevo ancora che la sensazione di disagio che provavo fosse uno dei significati di “smart”.

Ho appreso quest’accezione di smart insieme alle altre 200 persone presenti in auditorium solo sabato verso la fine del Festival, ascoltando l’arguto intervento di Arianna Porcelli Safonov sul tema dello smart working.

Come magicamente a un certo punto fossimo tutti pronti ai nostri posti nonostante liste per nome, banchetti volanti, chiamate all’ultimo momento in regia e contrattempi dell’ultimo momento è stata una cosa veramente smart. Ma anche aspra, perché la fatica e la tensione si facevano sentire.

Mi diverto, anzi no, Lavoro.

Ho corso in lungo e in largo per le due giornate del festival con addosso queste parole del Manifesto FdR scritte dietro le mie spalle: 1. Non siamo quello che facciamo.

Ero lì per questo, contribuire al buon risultato dell’evento, e nella pratica rovesciare il significato che la parola lavoro ha sulla mia identità. Rivendicare il fatto che il lavoro non dovrebbe prevaricare la mia vita, ma contribuire a realizzarla, ad arricchirla. Il lavoro deve essere uno strumento e non costrizione, sopruso, disagio, prevaricazione, ingiustizia.

Fino a qualche anno fa cercavo di convincermi che ero solo “Simona Malta, Account Manager”, e tanto facevo per starci dentro. Quanto compromettiamo della nostra vita per essere quel ruolo stampato sul biglietto da visita?

Siamo individui complessi, le nostre attitudini sono il frutto di una storia articolata che va oltre la formazione scolastica o i ruoli imposti dalle organizzazioni in cui siamo inseriti. Continuamente la nostra aspirazione è quella di far vedere chi siamo, essere riconosciuti a tutto tondo.

Non è stata quindi troppo una sorpresa per me ascoltare Andrea Montuschi nel suo JobX, “Lavorare, divertendosi” in cui, statistiche alla mano, ci ha rivelato che le persone che dichiarano di essere felici al lavoro sono con buonissima probabilità quelle che anche sul posto di lavoro hanno la possibilità di essere sé stesse.

Una parola essere sé stessi, dico io. Però è senz’altro quello può accadere in FiordiRisorse. Qui il terreno è fertile per confrontarci, fare uscire le idee, uscire dal ruolo, contribuire per quello che siamo, ognuno prendendosi cura di un aspetto, piccolo o grande che sia, dell’organizzazione dell’evento.

Distanza, anzi no, Vicinanza.

“Chiamare la didattica a distanza con questo nome è sbagliato”, ha affermato la professoressa Carimali durante il panel dedicato alla scuola. “La DAD è lo strumento che consente agli insegnanti di stare vicini ai propri allievi e alle famiglie, è uno strumento di vicinanza”.

Siamo stati attenti il più possibile alle distanze durante il Festival. Ci siamo misurati la temperatura, in auditorium abbiamo sistemato le sedie a un metro l’una dall’altra in modo che le persone potessero sentirsi al sicuro. Un salone che poteva contenere 800 persone è stato predisposto per ospitarne 250. Distanti.

Non ci sono stati assembramenti, non si sono formati gli abituali capannelli fuori dall’auditorium, abbiamo visto le persone incontrarsi con buffi inchini, incrociare i gomiti, sorridere dietro i plexiglass e le mascherine.

Lo spirito di Nobìlita è rimasto intatto nonostante le prescrizioni della pandemia, anche se ci sono mancati gli abbracci e di solito in queste occasioni ce ne scambiamo parecchi.

L’obiettivo principale di Nobìlita è stato quello, neanche tanto tra le righe, di tornare vicini nonostante tutto, di far sentire la nostra presenza, la forza delle nostre idee di cambiare le regole e le parole del lavoro, creare le condizioni affinché le persone escano dai profili LinkedIn e le distanze virtuali si trasformino in relazioni vere, scambi di idee e progetti.

Slogan, anzi no, Contenuti.

Le frasi del manifesto stampate sulle magliette possono sembrare degli slogan attraenti, belle parole per attirare le persone. Invece sono contenuti.

FiordiRisorse da sempre uscire dalle frasi fatte e concretamente cambiare la cultura del lavoro. Nobìlita e Senza Filtro sono la realizzazione di questo proposito, andare oltre i soliti cliché sul lavoro, le frasi fatte.

Sul palco di Nobìlita sono saliti i riders, per svelare i retroscena dell’accordo sindacale tanto sbandierato dalle piattaforme di food delivery a metà settembre; insegnanti di scuola insieme a imprenditori e a rettori per parlare di educazione al di là dei soliti proclami o solite lamentele sul panorama dell’educazione in Italia; a parlare del ruolo della donna oggi sono stati invitati uomini e donne (molto più spesso si assiste a una polarizzazione estrema nei dibattiti sul genere); per capire cosa significhi etica sul lavoro sono intervenute persone che dell’etica hanno fatto veramente il loro mestiere, non solo una dichiarazione di intenti.

Fine del Festival, anzi no, Inizio.

Mi sono divertita a riassumere fin qui alcune parole che in questi due giorni di Festival hanno cambiato faccia, ribaltato il loro significato. Ma ce n’è una il cui ribaltamento non è una novità, ed è che la fine di ogni Nobìlita Festival diventa un nuovo inizio e già mi sto preparando al prossimo.

Ci vediamo a Nobìlita 2021.

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