Quel terrore di perdere il brand (è) tutto Italiano. Ne parliamo con Ducati e Ruffino.
Ho aspettato qualche giorno prima di scrivere queste righe perché volevo farmi un’idea precisa sull’argomento leggendo qualche articolo, approfittando dell’ultima grande acquisizione di brand italiano (LoroPiana) da parte di un Gruppo straniero (LVMH) e soprattutto “sentire la temperatura” dei vari commenti sui blog e sui siti giornalistici.
Per chi si fosse perso qualche pezzo per la strada, Bulgari, Parmalat, Coin, Ducati, Valentino, Berloni, Moncler, Ferrè, Bertolli, Orzo Bimbo, Cesare Fiorucci, MV Agusta, Gancia, Brioni, Ruffino sono i brand italiani acquisiti nel passato più recente da Gruppi Stranieri. Ma, a dispetto dell’opinione comune, non è stata la crisi ad accentuare gli acquisti, poiché gran parte dei marchi di cui sopra erano in fase di acquisizione già prima del 2007.
Per frenare le prime repliche. Piuttosto, sorge spontanea una domanda: “perché gli Italiani non comprano all’estero”?
Il dato economico, l’unico con cui voglio tediarvi, ma utile per capire lo scenario è il seguente: dal 2007 ad oggi sono state acquisite da gruppi stranieri 363 aziende per un fatturato complessivo di 47 miliardi di euro, mentre gli Italiani hanno acquisito 241 aziende straniere per un fatturato complessivo di 23 miliardi di euro. (Fonte KPMG per Corriere della Sera)
E’ evidente che non siamo stati con le mani in mano ma è anche evidente che l’Italia ha acquisito aziende molto più piccole o avamposti commerciali o produttivi in territori in via di sviluppo, se escludiamo le acquisizioni di ENI, Campari, Luxottica, Amplifon, Gitech e Autogrill, per la stragrande maggioranza su territorio Americano e Medio Orientale. Nella Top 30 delle acquisizioni, in Europa risulta acquisita una sola azienda, francese.
Come rileva Innocenzo Cipolletta, direttore del Fondo Italiano di Investimento, sul medesimo articolo riportato da Corriere.it : “qui l’accento è da porre sul basso accesso ai capitali di rischio delle nostre imprese, poco interessate a quotarsi in Borsa per il terrore di perdere il controllo della società”.
La domanda che mi sono posto, leggendo i tantissimi commenti (a dire il vero spesso poco accademici e molto becero-conservativi del tipo “se stanno a magnà il Paese”, per intenderci), non è di carattere economico ma bensì di carattere culturale: si tratta di un’opportunità di crescita o di uno scippo vero e proprio come in tantissimi sui forum sembrano quotare per la maggiore?
Intanto salta all’occhio un primo dato: le aziende acquisite non sono quasi mai aziende “decotte”, ma per lo più aziende sane o recentemente risanate in grado di produrre fatturato proprio, ma spesso al limite della crescita.
Un secondo fattore sembra essere quello per cui le aziende italiane sembra che vengano acquisite più per quanto fatto e rappresentato in passato che non per attrazione industriale ed imprenditoriale.
Terzo ed ultimo fattore di riflessione mi viene dato da Giuseppe Latorre, partner Kpmg, che punta il dito contro “la nostra ossessione del controllo a testimonianza una visione miope in ottica di crescita e sviluppo” e invita a “non dispiacersi dell’eventuale perdita di sovranità”. “Colpisce tuttavia come la politica di acquisizione di aziende italiane porti persino a un aumento del numero di addetti, al netto di un eventuale accentramento delle funzioni di staff che invece fuggono altrove. “ In Italia 886.000 persone lavorano per conto di aziende italiane a ragione sociale estera.
Naturalmente, se mi conoscete bene, figuriamoci se mi accontento dei pareri istituzionali. Pertanto ho chiesto a due amici che fanno parte di due aziende : Ruffino e Ducati, entrambe acquisite da due Gruppi Stranieri, Constellation e Audi, di darci un loro parere in merito ai temi principali:
a) conservazione e cura del made in Italy b) gestione dei processi e delle risorse aziendali
Durante il nostro ultimo incontro in Ruffino per la Festa d’Estate di Fdr, Sandro Sartor, l’Amministratore Delegato, ci raccontò come l’azienda, di origine patronale e con un brand di grande riferimento (Folonari / Ruffino) stesse vivendo l’acquisizione da parte di un grosso gruppo americano, Constellation, probabilmente il più importante nell’export del vino. Ruffino oggi esporta il 90% del vino su mercati non-italiani, ha saputo differenziare il mercato ed il prodotto, costituire delle nicchie di riferimento e sta vivendo una crescita esponenziale in periodo di crisi che ha permesso al marchio di non fare tagli al personale e di investire ulteriormente. Inoltre, il management americano ha lasciato carta bianca nella gestione di comunicazione e marketing del brand in mano agli italiani, garantendo tradizione e continuità. Probabilmente la capacità economica e di investimento della Famiglia Proprietaria di Origine non sarebbero state adeguate alla richiesta del mercato per affrontare la crisi e rimanere un player di riferimento.
Altra esperienza è quella di Ducati. Parlando con il management italiano, l’operazione viene descritta come un esempio molto positivo. Anche qui è stata fatta l’acquisizione di un brand in salute dal punto di vista economico e di immagine, il che ha consentito all’azienda di avere totale autonomia decisionale. L’input dai nuovi proprietari (AUDI) è stato “Ducati bleibt Ducati” (Ducati rimane Ducati) e questo la dice lunga sul tipo di gestione promossa. “C’è poi da dire che Audi ha acquistato Ducati per ampliare il proprio mercato; non essere acquisiti da un competitor ci permette di fare investimenti e sviluppare nuovi prodotti, mantenendo inalterata la forza lavoro, anzi, crescendo”.
La mia riflessione finale, e il mio invito a discuterne insieme è dunque la seguente:
Siamo proprio sicuri che il Made in Italy nelle mani degli Italiani sia l’unica (e sempre la) scelta giusta? Ma soprattutto: questo incondizionato Amor di Patria che esprimiamo solo nei confronti degli stranieri, non finirà per farci chiudere a reali opportunità e possibilità di crescita?
Bellissimo argomento e altrettanto bello articolo. Credo che il bilancio negativo nella compravendite di aziende in Italia sia dovuta, oltre al terrore di perdere il brand, a 2 fattori in primo luogo.
Il primo è che le aziende italiane abbiano dimensioni mediamente inferiori a quelle europee e che quindi abbiamo mezzi meno potenti delle aziende provenienti da USA, Francia, ecc (Constellation e Audi). E direi che questo è un fatto.
Il secondo, che invece è una mia opinione, risiede in un fatto culturale relativo alla formazione manageriale che in Italia stenta ad avere lo stesso livello che in altri paesi. Ovvio che il manager italiano compensa con altre caratteristiche e qualità, ma spesso gli strumenti e le esperienze che ha a disposizione sono spesso di portata inferiore: e mi riferisco soprattutto alla visione internazionale che è dato soprattutto dalla contaminazione dei costumi (aziendali e non solo). Che è un processo iniziato sicuramente in ritardo rispetto ad altri paesi occidentali.
Da questo punto di vista la proprietà straniera è sicuramente un fatto che arricchisce la popolazione, sia da un punto di vista professionale (come impiegati e dirigenti) sia da un punto di vista materiale, finanziario, sia da un punto di vista del Made in Italy (quando le acquisizioni non sono fatte appunto dal competitor per smantellare la concorrenza.
Concordo con l’analisi di Andrea ed aggiungo che la composizione bonsai delle imprese italiane (circa l’80% dichiarano meno di 10 addetti) e un capitalismo familiare, in più di una circostanza proiettato all’arricchimento personale (Parmalat ed in ultimo Fonsai) non ci deve far stupire se nelle operazioni di M&A, siamo rappresentiamo la lepre e non il leone. Guarderei in ogni caso il bicchiere mezzo pieno. Se siamo appetibili, al punto che i nostri brand debbono rimanere tali anche per scelta dell’azionista di maggioranza (Audi/Ducati docet), vuol dire che siamo particolarmente bravi a creali. Ora dobbiamo studiare per ricapitalizzare e fortificare le nostre imprese per aumentare lo shopping fuori dai nostri confini.