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“Ingresso libero”, ma sul serio!

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Sono stato un bambino fortunato.

Mio padre non mi volle privare di quelle beate ore di sonno che la frequenza dell’asilo mi avrebbe rubato prima della scuola dell’obbligo, e al mattino quindi potevo accompagnare mia mamma a fare la spesa, girovagando tra i profumi e le persone che affollavano le botteghe di Firenze. Avevo così stilato una mia personale classifica di gradimento tra il freddo delle macellerie, la monotonia delle latterie e la colorita abbondanza e varietà di prodotti che facevano bella mostra di sé nelle pizzicherie (ovvero le drogherie, per chi non è nato “all’ombra del Cupolone”, n.d.r.). La mia simpatia verso quel particolare negozio era alimentata dalla colorita giovialità tipica del titolare e dai piccoli assaggi di parmigiano o di prosciutto che, col consenso di mia madre, egli mi offriva uscendo dal banco e porgendomeli direttamente dalle sue mani. Il mio sorridente annuire alla domanda di verifica del pizzicagnolo (“è buono, eh?”) confortava la mamma sull’opportunità dell’acquisto e io non vedevo l’ora di arrivare di nuovo al sabato, per poter assolvere il mio ruolo ormai acquisito di assaggiatore ufficiale di casa.

Ero piuttosto annoiato, invece, dai negozi di abbigliamento, nei quali mi sentivo trattato un po’ come un manichino, infastidito dal dovermi togliere il mio maglione preferito per provarmene una serie di nuovi, di cui onestamente non sentivo tutto quel bisogno. Rimasi invece colpito da quei primi negozi che sfoggiavano sulla porta d’ingresso la dicitura “ingresso libero”: capii che quella scritta significava che potevamoo entrare liberamente, curiosare, toccare, rovistare, provare e addirittura potevamo uscire da quel negozio anche senza acquistare nulla, e nessuno si sarebbe sognato di guardarci storto ma, anzi, ci avrebbero tutti salutato con un sorriso sperando di rivederci presto. Una volta messo in guardia che se avessi rotto qualcosa sarebbero stati guai, il grande gioco dell’esplorazione poteva avere inizio e rapidamente inserii anche i grandi magazzini tra i miei negozi preferiti.

Ben presto i prodotti particolarmente belli cominciarono ad alimentare la propria fama e riconoscibilità proiettando sull’insegna del negozio quel marchio che ricordavo ricamato sull’etichetta, e i negozi diventarono sempre più grandi, più luminosi, con i prezzi scritti a caratteri sempre più visibili ed era divertente cercare tra gli scaffali di questi negozi la conferma di quello che il Carosello prometteva in bianco e nero prima di andare a letto, o che i rotocalchi promettevano a colori mentre aspettavo che la parrucchiera terminasse la sua opera con mia madre. Una volta terminata l’euforica autoreferenzialità delle griffes, a cui abbiamo assistito fino alla recessione dei primi anni ’90, le aziende hanno pensato bene che una catena di negozi monomarca potesse riuscire a sostenere i valori di un brand, consolidandoli nell’immaginario del pubblico grazie alla loro percezione diretta, in un circolo virtuoso e autovalidante tra il bisogno e la sua soddisfazione, condividendo i suoi valori ad un livello territorialmente diffuso e fisicamente vicino al cliente: le aziende hanno iniziato ad inseguire il cliente lungo i suoi movimenti quotidiani e lo hanno assecondato rispetto ai suoi nuovi stili di vita e di acquisto, consentendogli di entrare direttamente nella casa di mattoni, scaffali e gondole che il brand si era costruito per legittimarsi. I professionisti del retail hanno lavorato sulla massima coerenza di assortimento e di pricing rispetto all’insegna, hanno offerto la presenza di un lounge bar nei negozi di abbigliamento, hanno esposto gallerie temporanee di opere d’arte tra un camerino di prova e l’altro, e hanno comunicato al cliente che l’assortimento oggi non si limita più a quel rinnovo stagionale semestrale che era abituato a trovare dopo la fine dei saldi, ma cambia una volta al mese, addirittura una volta alla settimana; quindi, se ti piace, devi anche decidere in fretta e comprare. Tutto questo ha funzionato, e abbiamo iniziato a fidarci del brand, grazie al suo potere di coinvolgimento nei suoi valori e nelle sue regole; e a fidarci anche di quel luogo magico che lo rendeva tangibile e riconoscibile, ovvero la boutique. Siamo entrati a far parte di un mondo, di una community, a cui appartenevamo semplicemente per il fatto di entrare in un determinato negozio e ci lasciavamo cullare da tutti quegli stimoli estremamente gratificanti che solo la consapevolezza e la convinzione di una certa scelta ci può garantire. Fino a raggiungere quel “nirvana” per il quale qualsiasi prodotto avessimo mai trovato in quel negozio sarebbe diventato automaticamente degno della nostra attenzione e del nostro apprezzamento, fosse anche stata la più stravagante delle brand extensions.

Facile, no?

Mi racconta un amico che qualche anno fa gli fu commissionata una survey su una certa boutique del “quadrilatero della moda”, per cercare di capire il motivo della scarsa fidelizzazione della clientela locale, avendo rilevato una quota di clienti milanesi molto bassa rispetto alla clientela internazionale di passaggio, anche rispetto agli altri flagship storse della stessa catena. Il risultato fu banalmente spiazzante: i pochi scalini necessari ad entrare in quel negozio obbligavano il cliente a intraprendere un certo percorso prima di entrare in contatto con il prodotto; e le vendeuses, splendide ma non abbastanza amichevoli, contribuivano a raggelare il prodotto e l’ambiente, vanificando gran parte dell’appeal del negozio e del brand. Un cliente poteva entrare, attirato dall’allure evocata dall’insegna, dalla location esclusiva, dalla curiosità, dal desiderio di acquistare; ma non trovava al suo interno sufficienti stimoli per tornarci. Magari aveva anche acquistato, ma non si era divertito. Il prodotto era lontano dal cliente, difficile da raggiungere. Era mancato il contatto, l’elemento relazionale, ciò che avvicina il brand al cliente: che è un individuo pensante, con i suoi sogni, i suoi ricordi e le sue sensazioni.

Il negozio promette qualcosa, ma è il venditore che deve mantenere questa promessa. Tra gli elementi che costituiscono la strategia retail, troppo spesso ci dimentichiamo di focalizzarci su quello più delicato e bisognoso di manutenzione, che è la service policy, il dosaggio quali-quantitativo del livello di servizio. Tradotto in concreto: un sorriso sincero, un convinto saluto di benvenuto, un gesto spontaneo che non scoraggi il cliente a toccare il prodotto ma che, al contrario, lo inviti a provarlo, a immaginarlo già suo. Il cliente che decide di visitare una boutique, già fuori dal negozio pregusta l’inizio del film di cui si appresta a diventare il protagonista: il compito del venditore sarà quello di fargli da “spalla”, da “comparsa” durante tutta la scena; il venditore aiuterà il cliente a familiarizzare con un ambiente nuovo e pieno di sorprese, che è il negozio; gli descriverà la comodità del divano da cui ammirerà il tv al plasma che sta per acquistare, gli farà pregustare il sorriso della donna che riceverà in regalo l’anello che sta scegliendo. La nostra venditrice farà sussultare il cuore della sua cliente, lasciandole immaginare lo sguardo piacevolmente sorpreso che il suo uomo le rivolgerà, accompagnandola a teatro nella sua nuova “mise”. E la nostra cliente sarà una diva, il nostro cliente sarà un uomo di successo, sicuro di sé; sarà stato confortato dal venditore nella correttezza della sua scelta, avrà vissuto il suo film da protagonista, avrà soddisfatto il suo bisogno d’acquisto ma, soprattutto, si sarà divertito. Quando gli consegneremo la shopper contenente l’oggetto dei suoi desideri, non sarà neanche necessario soggiungere “torni presto a trovarci!”: perché sarà lui che non vedrà l’ora di tornare, sicuro che, ancora una volta, potrà trovare nel nostro negozio qualcuno che lo aiuterà a vivere il suo film, a fare la sua scelta: qualcuno che lo aiuterà a divertirsi acquistando.

Ed il cliente si divertirà, come un bambino.

3 Commenti

  1. Gentile Marco, il tuo articolo è talmente bello che mi ha emozionato ed è in linea su quanto vado proponendo alla mia città sulla lealtà verso i negozi del centro (vd miei articoli qui già pubblicati). Vista la possibilità, citandone naturalmente la fonte credo di ‘rubarmelo’ immediatamente mettendolo in circolo sui canali locali. Grazie Alberto

  2. Ciao Marco,
    bella la tua prosa e mi aggiungo con una mia esperienza in Inghilterra di appena 5 anni fa, che sembra fatta apposta per suffragare le tue parole…… Ho visitato, per circa una settimana, 4/5 concessionarie, di diversi marchi automobilistici, per un’attività di benchmarking e rimasi colpito come, quelli con esposizione esterna, avessero l’abitudine di avere il portellone posteriore, e a volte quello lato guida, aperto.
    Cioè ogni mattino, pomeriggio e sera, c’era un qualcuno che apriva e poi richiudeva tutte quelle porte…..mi chiesi perchè, e il nostro tutor ci spiegò che era un nuovo “approccio”, un nuovo tentativo di suscitare serenità ed interesse per un probabile cliente…..significava: ” Accomodati, fai come a casa tua, guarda il prezzo, le caratteristiche ma soprattutto siediti, tocca, annusa….”….ovviamente l’investimento che veniva fatto, visto come ragionano gli Inglesi, era più che ripagato dal ritorno di visite e di acquisti!

  3. Non mi occupo di marketing ma ho letto con interesse quanto scritto da Marco.
    Un articolo d’avvero ben scritto!
    ciao donatella

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