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Carboni ardenti, scacchi e team building

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Pubblichiamo la risposta di Roberto Locatelli ad un post pubblicato da Osvaldo Danzi su Linkedin, poiché ci sembra molto ben argomentata e un ottimo spunto di riflessione.

Il tema è delicato e interessante allo stesso tempo. 

Mi scuso in anticipo per la lunghezza ma, essendo un argomento a me molto caro, vorrei evitare di essere frainteso su una materia così sfuggente e manipolabile.

Non posso che essere d’accordo sull’utilizzo fuori luogo – e spesso modaiolo – degli eventi di team building da parte di molte aziende.

Per quanto riguarda i carboni ardenti li uso solo per fare la brace per le grigliate. 

Occupandomi dal 2003 di formazione esperienziale (termine che ritengo molto più adeguato rispetto a “team building”, spesso usato con un’accezione troppo ampia o fuorviante), ne ho viste di tutti i colori, comprese buone pratiche che hanno portato a risultati interessanti.

Come tu giustamente affermi, il problema principale è la mancanza di un contesto all’interno del quale inserire le sessioni esperienziali e, soprattutto, la carenza cronica di de-briefing strutturati e di sessioni di follow up. Questo, tuttavia, è da imputare più ad una scarsa preparazione di sedicenti formatori/motivatori/coach e delle relative controparti aziendali (e qui so di tirarmi appresso un po’ di antipatie) piuttosto che all’inefficacia dello strumento.

Senza tirare in ballo la vasta letteratura scientifica a sostegno della metodologia esperienziale nell’apprendimento degli adulti, che credo sia più che consolidata, forse sarebbe più utile farsi un esame di coscienza per capire come utilizzare questi strumenti al meglio. Una maggiore conoscenza su come applicare una metodologia, che sembra semplice, può aiutare sia le aziende, sia chi utilizza in maniera professionale strumenti e metodi di apprendimento che richiedono attenzione, competenza specifica ed esperienza.

Purtroppo, la superficie di questo fenomeno è disseminata di carboni ardenti, pseudo-vacanze in barca a vela, adrenaliniche discese in raft e speech ispirazionali che promettono di cambiare magicamente le persone in un pomeriggio. Il grande danno che questo ha creato è che, alla fine, si rischia di buttar via l’acqua sporca con tutto l’infante, considerando qualsiasi attività esperienziale come “una cagata pazzesca” di fantozziana memoria.

Personalmente applico la formazione esperienziale e utilizzo esperienze strutturate per lavorare su obiettivi formativi specifici (che a volte non hanno nulla a che fare con la costruzione del team) e su progetti di assessment. Abbiamo costruito ed erogato progetti per grandi clienti, con obiettivi ambiziosi e misurabili, di cui personalmente vado fiero. 

Non nascondo che la maggior parte delle richieste che mi arrivano sono relative a scampagnate senso senso. Alcune volte riesco ad aprire un confronto con l’azienda per far capire come impiegare meglio strumenti del genere e di come fasi di analisi, progettazione, discussione e follow up dettagliate siano indispensabili, all’interno di un progetto di più ampio respiro, che preveda anche l’utilizzo strumenti complementari per raggiungere l’obiettivo desiderato. Altre volte fallisco miseramente, ma questo mi spinge a pensare che posso lavorare ancora più alacremente sugli ampi margini di miglioramento che ci sono.

Come qualsiasi strumento, dipende da come si utilizza.

Fare un team building, magari in un giorno festivo (se è un investimento che l’azienda fa nei confronti dei suoi manager, allora deve essere fatto in orario lavorativo senza intaccare il tempo personale del dipendente) in cui si affronta una discesa di rafting urlando tutti insieme ad ogni rapida, con la successiva omelia del formatore che ci spiega che siamo tutti sulla stessa barca significa – perdona il francesismo – buttare letteralmente i soldi nel cesso. (A meno che l’obiettivo dell’azienda non sia semplicemente regalare una giornata di svago da vivere tutti insieme).

Utilizzare, invece, la metafora del rafting per lavorare sulla comunicazione intra e inter-gruppo, o sulla gestione di progetti complessi, oppure ancora sulla leadership attraverso la creazione e il superamento di specifici ostacoli che sono stati progettati e provati meticolosamente i giorni precedenti, in modo da creare degli stimoli che possano far emergere, quanto meno, una discussione su determinati comportamenti e competenze organizzative e manageriali è tutt’altra storia. Per fare questo, per arrivare ad un obiettivo concreto, il rafting (o la vela o l’uncinetto) deve necessariamente passare da attività in sé a strumento. La principale conseguenza è che l’evento deve essere progettato in anticipo, deve essere coerente con tutte le altre iniziative di formazione, deve essere strutturato in modo diverso se si lavora sulla leadership o sulla comunicazione, deve essere utilizzato in maniera complementare con altri strumenti all’interno di un progetto di lungo respiro volto a stimolare l’emersione di nuovi comportamenti.

Mi premeva aprire una finestra su questo mondo per evitare che un errato utilizzo di uno strumento potenzialmente efficace (come una medicina, un’arma, la tecnologia, i social media o altro) possa far passare il concetto che il problema sia insito nello strumento (e non nel suo utilizzo).

Nella sicurezza sul lavoro c’è molta attenzione alla certificazione dei dispositivi di protezione individuale. Ma la sola certificazione non basta. Per essere efficaci e per prevenire o proteggere efficacemente, l’utilizzatore deve attenersi scrupolosamente alle indicazioni specificate nel bugiardino (foglietto illustrativo o procedure esplicite). Nel 99,9% dei casi, l’incidente è frutto di un utilizzo scorretto del dispositivo piuttosto che del dispositivo in sé.

Nel mare magnum del team building, forse sarebbe utile dotare gli operatori di una sorta di bugiardino che ne illustri metodologie e limiti di utilizzo.

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