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Chi comanda in Azienda?

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Come convivono, nella pratica quotidiana, le responsabilità funzionali centralizzate a livello di gruppo e quelle locali relative all’organigramma della singola entità o business unit (stabilimento produttivo, filiale, branch)?
Assodato che al centro spetta la definizione di strategie e obiettivi e che alla periferia spetta la gestione dell’attuazione di questi, dove sta il confine operativo fra i due ambiti?  Come devono gestire, i singoli manager, gli input, a volte in contraddizione, che arrivano dal capo gerarchico e dal responsabile di funzione ? In sostanza, at the end of the day, chi comanda ?

Un esempio semplice: il logistic manager dello stabilimento XX riceve due diverse interpretazioni circa la gestione delle scorte di magazzino che gestisce, da un lato da parte del direttore del suo stabilimento (che in genere è anche il suo capo), che ha l’interesse di  garantire la continuità produttiva, e dall’altro da parte del direttore della Supply Chain centrale che ha l’obiettivo di tenere controllato il valore delle scorte a livello globale. Chi ha la fatidica “ultima parola”?
Quando, alcuni giorni or sono, ho deciso di proporre questi quesiti ai colleghi FdR,  l’ho fatto principalmente per avere un feedback circa una difficoltà che sto sperimentando di persona, a causa della ristrutturazione della mia azienda e conseguente ridefinizione delle mie responsabilità.
Evidentemente, visto il numero degli interventi che il mio spunto ha generato, il problema è più diffuso e sentito di quanto pensassi e coinvolge organizzazione e strutture operanti nei più diversi campi di attività.

Pertanto, su suggerimento di Osvaldo, mi è sembrato opportuno riassumere quanto emerso dal dibattito e fissare alcune conclusioni, ovviamente non per porre la parola fine alla discussione ma per cercare di fare il punto della situazione e riorganizzare le idee.
La  maggioranza dei tanti  “operativi” che hanno partecipato al dibattito  sono concordi nel dichiarare che la difficoltà esiste e che tutti, bene o male, la stanno sperimentando, o l’hanno sperimentata, sulla propria pelle. Più o meno tutti sono inoltre d’accordo sul fatto che, al di là del modello organizzativo in cui ci si muove, resta una indeterminatezza di base, per cui finiscono per avere un ruolo decisivo l’autorevolezza, l’esperienza e il “peso specifico” dei singoli players.

Cito ad esempio un passaggio dell’intervento di Davide Meldolesi : “Una cosa è chiara: in questi contesti non c’è un capo unico che possa decidere autonomamente su argomenti di una certa rilevanza. Per decidere occorre coinvolgere sempre il capo funzionale e trovare un accordo con lui. Quindi quello che consiglio è mettere in moto più del solito le capacità di dialogo e convincimento in modo da avere il consenso dell’altra persona con fatti ed evidenze.
In caso di contrasti, bisogna capire bene in quale contesto ci si trova: nella mia realtà precedente, ero comunque io che prendevo l’ultima decisione. “

Un altro denominatore comune che si può individuare fra i commenti è sicuramente il fatto che nella realtà attuale non esiste una scelta organizzativa prevalente ne tantomeno un modello di riferimento teorico consolidato.  All’interno della stessa azienda esistono spesso fasi e comunque ogni situazione necessita di una calibrazione ad hoc del bilanciamento fra comando centrale e “federalismo organizzativo” (bella l’espressione di Marco Cojutti) . Chiaramente la dimensione globale delle multinazionali complica ulteriormente la situazione, introducendo problemi di approccio culturale (a volte anche linguistico) diverso fra le due parti in gioco.  Pensiamo alle differenze fra gli “stili manageriali” americano, tedesco, italiano o giapponese, come ha sottolineato Fabio Baiocchi.

Sembra di capire che nella pratica (e parlo anche per la mia esperienza in prima persona) le aziende adattino l’organizzazione alle persone, più che collocare le risorse disponibili (o da ricercare) all’interno di un modello predefinito e strategicamente condiviso. Questo, che da un cero punto di vista potrebbe essere un fatto positivo ( a voi la sentenza), porta comunque a una carenza di chiarezza nell’assegnazione di ruoli e responsabilità. Una carenza drammatica, se lascia campo libero alle battaglie di potere personale, dove prevalgono non i migliori, non quelli con la visione più chiara ed efficace, ma i più furbi, spesso i più arroganti.
Quindi la soluzione non può non venire dall’alto, da una esplicita definizione della struttura organizzativa da parte del top management che ha il dovere di dichiarare nere o bianche tutte le eventuali zone grigie, e comunque non può prescindere da una univoca assegnazione della responsabilità del raggiungimento degli obiettivi del risultato di gestione dell’area in questione. E se, comunque, la prima preoccupazione del riporto sarà quella di soddisfare ed attuare le direttive del suo capo (cioè chi gli firma le ferie, ne valuta i risultati e ne decide/propone gli aumenti), sia esso locale o centrale, devono essere introdotti meccanismi e procedure per facilitare/forzare il raggiungimento sul campo di decisioni condivise.

Dice Domenico Famà : “I conflitti di questo tipo di solito nascono quando la attribuzione delle responsabilità è carente. Non coerente col disegno organizzativo, non curata al livello di dettaglio necessario ecc.
Del resto, anche col migliore dei design, ci saranno sempre casi non previsti da affrontare, come nuovi progetti
.”
E comunque non basta.

Come ha puntualizzato Mario Gastaldi. : “Le soluzioni puramente di “design organizzativo” sono fragili. Se il mio HR costruisce un meccanismo che io non condivido, troverò sicuramente molti modi per esercitare pressioni sul mio riporto locale, e non mi preoccuperò affatto del mio collega di funzione. La stessa cosa può fare il mio collega, intimorendo la (mia/nostra) risorsa. In ogni caso il riporto sarà confuso e incontrerà una serie di difficoltà. Molto probabilmente entrerà prudentemente in modalità “autoprotezione”, e saluti ai risultati e alla qualità del suo contributo.
Le soluzioni di dialogo servono perché producono
1. scelte di “design organizzativo”: regole di funzionamento, articolazione degli obiettivi e priorità, meccanismi decisionali e di riporto.
2. oltre alle scelte immediate, capacità di interagire positivamente e fare ancora altre scelte in circostanze future non sempre uguali.
Se le scelte vengono subite dai managers e dal riporto (magari progettate da HR o altri), senza che questi (managers) abbiano alcun ruolo nel design, le scelte saranno spesso rispettate “in superficie” e boicottate nella sostanza, in qualche misura. “

In conclusione, la questione sembra tutt’altro che risolta. Continuiamo a ragionarci sopra, noi che  viviamo la quotidianità in trincea e gli amici addetti ai lavori di organizzazione, tenendo tutti presente il buon vecchio principio secondo il quale “chi fa, sa”.

12 Commenti

  1. Anche io penso che sia un ottimo quesito perché si presta a riflessioni applicabili in contesti generali.

    Le proposte di soluzione che abbiamo offerto riguardano:

    1. aspetti di “design” organizzativo, obiettivi, definizione di riporti e distribuzione di responsabilità ecc.

    2. dialogo e di condivisione delle scelte tra il management di business unit e il management di funzione.

    Le soluzioni puramente di “design organizzativo” sono fragili. Se il mio HR costruisce un meccanismo che io non condivido, troverò sicuramente molti modi per esercitare pressioni sul mio riporto locale, e non mi preoccuperò affatto del mio collega di funzione. La stessa cosa può fare il mio collega, intimorendo la (mia/nostra) risorsa.
    In ogni caso il riporto sarà confuso e incontrerà una serie di difficoltà. Molto probabilmente entrerà prudentemente in modalità “autoprotezione”, e saluti ai risultati e alla qualità del suo contributo.

    Le soluzioni di dialogo servono perché producono
    1. scelte di “design organizzativo”: regole di funzionamento, articolazione degli obiettivi e priorità, meccanismi decisionali e di riporto.

    2. oltre alle scelte immediate, capacità di interagire positivamente e fare ancora altre scelte in circostanze future non sempre uguali.

    Se le scelte vengono subite dai managers e dal riporto (magari progettate da HR o altri), senza che questi (managers) abbiano alcun ruolo nel design, le scelte saranno spesso rispettate “in superficie” e boicottate nella sostanza, in qualche misura.

    Spero sia utile.
    Mario

  2. Caro Marco,
    non sono un tuo collega, ma mi fa piacere condividere qualche idea; spero sia utile.

    Si tratta di un conflitto/dilemma organizzativo come tanti.

    In realtà la complessità degli intrecci tra persone e attività è anche superiore a quella che tu descrivi, anche quando gli organigrammi sono (apparentemente) semplici. La grande parte della complessità non trova traccia in nessun organigramma.
    Gli organigrammi a matrice mostrano subito lacune, se non hanno a supporto una interpretazione, da parte di voi che operate ai diversi livelli gerarchici, che favorisce il lavoro.
    Le tue domande ci dicono chiaramente che l’interpretazione attuale non funziona.

    La soluzione ideale, per quanto posso dire con le informazioni disponibili, sta nel esplicitare il tuo dubbio, (“a chi spetta l’ultima parola”), nell’ambito di conversazioni di alto profilo, che coinvolgono, (e connettono), le persone nei due mondi “intercompany a livello di gruppo” e dell’organigramma locale, e forse altri che facilitano e danno un contributo sul processo (la conversazione).
    Le vostre persone di HR?

    Potrebbe non essere per niente facile, o forse si.
    Sicuramente esiste un modo, per arrivare a svolgere queste conversazioni, che dipende dalle vostre specifiche situazioni.

    In ogni caso, sicuramente non esiste una regola assoluta che vale sempre. La regola per risolvere questi conflitti deve scaturire dal confronto-incontro tra voi che vi ci trovate.
    Infatti, prima ancora della regola, è opportuno che voi, direttamente coinvolti, “impariate collettivamente” a comunicare in modo costante ed efficace rispetto a situazioni sempre nuove.

    Un ultimo pensiero … spostare la leva del controllo qua e la può essere utile solo se poi nel concreto della quotidianità, ancora, la comunicazione costruttiva funziona.

  3. Ciao Marco,
    io lavoro in una multinazionale americana ad organizzazione matriciale.
    In questo contesto, c’è un’organizzazione locale che dovrebbe essere gerarchica e della quale sono a capo, essendo General Manager. Però la performance appraisal dei mieri riporti diretti la fa il loro capo funzionale che si trova a migliaia di Km di distanza, utilizzando anche il mio input. E’ il contrario di quanto succedeva nella mia realtà precedente.
    E’ chiaro che è stata una realtà nuova anche per me e che da subito occorre capire come muoversi. Ma una cosa è chiara: in quessi contesti non c’è un capo unico che possa decidere autonomamente su argomenti di una certa rilevanza. Per decidere occorre coinvolgere sempre il capo funzionale e trovare un accordo con lui. Quindi quello che consiglio è mettere in moto più del solito le capacità di dialogo e convincimento in modo da avere il consenso dell’altra persona con fatti ed evidenze.
    In caso di contrasti, bisogna capire bene in quale contesto ci si trova: nella mia realtà precedente, ero comunque io che prendevo l’ultima decisione.

  4. In generale la mia esperienza ultra-decennale di multinazionali mi porta a concordare con Marco: a seconda del momento storico il gruppo puo’ modificare l’equilibrio la leva del controllo spostandola dal centro alla periferie. In particolare poi negli ultimi due anni ho sperimentato di persona l’azienda relamente globale in cui il confine centro-periferia non esiste piu’ ma si fa parte di contesti (business unit) globali in cui anche la gerarchia dell’organigramma travalica a tutti i livelli piu’ nazioni: cambia tutto, ti senti parte effettivamente del gruppo e forse rappresenta la vittoria del gruppo visto che management/decisioni/… appartengono persone che prima di tutto sono del gruppo al di la’ che vivano in una delle countries del gruppo. Forse ho ulteriormente confuso le idee ma spero di aver dato un’altra chiave di lettura dei contesti multinazionali.

  5. Normalmente comanda chi “urla più forte”!
    Il merito delle cose buone è sempre di un altro mentre le rogne e soprattutto i costi sono sempre tuoi.

    Ci sono due punti di vista contrapposti
    1) tu sei il capo e tutti gli altri ti scappano da tutte le parti nascondendosi dietro a frasi tipo “non è mio compito/non è la mia zona/non è la mia BU”, “se ne occupa tizio”, “mi piacerebbe ma Caio mi appena ingaggiato per”, ” lo faccio volentieri (!), ma sincerati che qualcuno spesi le mie attività”. L’ultima è la più subdola ma denota una cieca obbedienza alle regole aziendali, in genere è molto apprezzata.

    2) tu sei la risorsa “pregiata” e gli altri si accapigliano per averti: “so che sei impegnato ma avrei bisogno di un favore, puoi guardarci sabato/domenica/stanotte”, “so che non è compito tuo, ma Tizio è malato/morto/disperso e solo tu puoi dirmi come risolvere questo casino”, “guarda sei la nostra unica chance, dovevamo consegnare venerdì ma poi, la pioggia, la grandine, il maltempo, il ciclone delle antille, le cavallette …”

    Normalmente in situazioni del genere prevalgono il “committment personale” e la buona volontà, ad entrambi i livelli; purtroppo però le strutture a matrice se non perfettamente oliate, e forse oracle è una mosca bianca in questo campo, portano ad una mancanza di chiarezza dei ruoli e ad una deresponsabilizzazione delle persone, risulta difficile capire di chi sono le colpe e i meriti vengono assegnati ai più “furbi”.

    Credo che la matrice risolva per lo più il problema di avere un sovrannumero di manager (molti dei quali presunti tali) e una scarsa capacità di gestione (azienda “anarchica” o “dittatoriale”, due facce della stessa medaglia). Normalmente insieme alla matrice spuntano i “centri di competenza” ovvero quelli che effettivamente sanno le cose, le mettono in pratica e, a seconda del risultato, si smazzano i casini o ricevono belle parole di ringraziamento (i bonus tangibili vanno sulla matrice!).

    spero di averti chiarito le idee …

  6. Ciao Marco,
    i conflitti di questo tipo di solito nascono quando la attribuzione delle responsabilità è carente. Non coerente col disegno organizzativo, non curata al livello di dettaglio necessario ecc.

    Del resto, anche col migliore dei design, ci saranno sempre casi non previsti da affrontare, come nuovi progetti.
    In questo caso è opportuno definire delle responsabilità ad hoc (a livello di progetto) per coprire eventuali “scoperture”.
    Se il progetto è governato “dal gruppo”….non ci sono problemi a chi spetta “l’ultima parola”.
    Qualche conflitto residuale può naturalmente ancora esserci, ad esempio se il progetto va a modificare qualcosa già esistente “a livello locale”. Secondo la mia esprienza questo è un tipo di conflitto che in fretta si sposta sul budget: priorità e tempistiche. Al massimo il livello “locale” guadagna un pò di tempo. Poi si adegua.

    Tutto questo se si rimane nell’ambito di una funzione di supporto (es. HR: HR di gruppo ed HR locale ad esempio).

    Se subentrano dinamiche di business, le cose possono anche cambiare radicalmente.
    Di solito “il gruppo” riesce a spingere le sue soluzioni solo se fortissimamente sponsorizzato dai vertici del gruppo stesso (cui in ultima analisi interessa solo, o “prioritariamente” se preferisci, la bottom line e come ogni “locale” vi contribuisce).
    Allora, un pò di resistenza e di sensibilità al contesto da parte del “locale” non infrequentemente porta il “gruppo” ad atteggiamenti partecipativi e negoziali.

    Insomma, anche se sono un Fisico come estrazione, non ci vedo nulla di troppo deterministico/ ingegneristico in queste faccende (il quantificativo “troppo” è il fattore chiave in tutte le faccende umane….I suppose): studiarsi l’organizzazione, concordare nei progetti come evitare sovrapposizioni, difendere il proprio business negoziando su risorse e priorità, conquistarsi progressivamente (performence, affidabilità ecc.) un ruolo da interlocutore anzichè da “passive follower”.

  7. Nella mia esperienza i due aspetti, organizzazione e persone, sono inscindibili agli effetti del funzionamento di una impresa e andrebbero considerati come variabili dipendenti dalle strategie e anche da fattori non controllabili dalla stessa azienda.
    Tra i due estremi: azienda centrata sull’organizzazione (meccanicistica – tayloristica) e azienda centrata sulla risorsa umana c’è un continuum di soluzioni intermedie che devono essere individuate e innovate con continuità dal vertice nell’ambito della sua specifica responsabilità di attribuzione di deleghe e di miglioramento dei processi.
    La fragilità delle soluzioni dipende dalla loro adeguatezza ai bisogni dell’impresa.
    Altra cosa è saper comunicare le scelte fatte, selezionare, formare e coinvolgere i manager delegati.

  8. Marco, mi piace molto il commento di Ennio che, non a caso, di organizzazione se ne intende.
    Io, facendo molto modestamente riferimento alle esperienze avute in contesti molto diversi (multinazionali e non, ruoli gerarchici e funzionali, cross-functional teams, modelli organizzativi svariati…), non sono “innamorato” di nessun modello organizzativo in particolare, pur riconoscendo pregi a molti possibili modelli; penso che l’organizzazione debba essere un “apparato” vivo di un’impresa e debba adattarsi, crescere, rimpicciolirsi, modificarsi a seconda dell’evoluzione del business e delle persone di cui dispone. Faccio un esempio: se assumo un giovane e promettente product manager che dopo poco si mostra un drago del marketing, magari creerò ad hoc una direzione marketing, lasciando però la direzione vendite (per cui il giovane non è altrettanto drago) ad un “vecchio” direttore commerciale che ha ancora cartucce da sparare; in tutto questo, probabilmente ci dovrà essere qualcuno sopra che guarda con occhio attento e garantisce gli equilibri, a favore di un risultato d’insieme vincente.
    In questo contesto, penso che l’autorevolezza delle persone sia determinante; un program manager capace e di polso, pur senza alcun riporto gerarchico, può essere trainante per una funzione engineering, sul programma specifico ed aiutando i compontenti del team di programma a crescere in generale; una buona collaborazione con il direttore engineering, magari più tecnico e meno gestore, può comunque portare buoni frutti a tutti: ingegneri e progettisti che crescono, direttore tecnico che ha una struttura più forte e pragram manager che raggiunge l’obiettivo nei tempi e con la soddisfazione dei team members.

    Grazie per lo spunto di discussione che hai proposto.

  9. Il problema è inevitabile per chi lavora in un’azienda articolata su diverse sedi.
    Condivido gran parte delle cose già dette; vorrei però fare una domanda per me cruciale: qual è il reale livello di autonomia del responsabile locale rispetto al risultato di gestione?
    Dipende evidentemente dalle difficoltà che ogni responsabile locale incontra nel suo particolare contesto, confrontate con la sua esperienza e capacità.
    Se prevale la complessità, il responsabile locale (ovviamente competente) dovrebbe avere tutte le leve operative sotto il controllo gerarchico per rendere più diretta e tempestiva la gestione (sarebbe quasi un ruolo imprenditoriale dove prevale l’efficacia).
    Al contrario in una situazione operativa, sostenuta da modelli chiari, collaudati e sottoposti a procedure ben definite, potrebbe essere sufficiente per il responsabile locale un ruolo di coordinamento (responsabilità condivisa sul risultato) di persone che rispondono alla funzione centrale e che facilmente possono essere mobilitate per periodi anche brevi e poi tornare in sede (più efficienza).

    In ogni caso alla funzione centrale dovrebbe garantire la qualità e il coordinamento della formazione, degli obiettivi e del controllo.

    Ennio

  10. Marco,
    non è facile rispondere, anche perchè molto dipende dal business, dalla organizzazione globale e dai core values dell’azienda. Se vuoi, anche dalla nazionalità della casa madre: pensa ad esempio a quanto sono differenti come cultura gli stili di management giapponese, americano, svedese, italiano, etc
    In genere, agli enti centrali / corporate spettano le decisioni più strategiche: definizione di linee guida, obiettivi, lancio di progetti coerenti con le strategie di business, etc. A livello locale spetta l’applicazione dei suddetti, con la possibilità di godere di quel minimo di autonomia ed indipendenza nel decidere modalità operative e di applicazione.
    Ciò che forse più conta è la condivisione comune degli obiettivi e la distribuzione omogenea delle competenze tra corporate e locale. Non c’è nulla di peggio del seguente scenario, che ahimè ho avuto modo di verificare in prima persona in una primaria azienda italiana.
    A livello corporate l’azienda aveva posizionato persone competenti, belle menti pensanti, bei talenti, amanti della teoria, ma che in precedenza avevano sempre avuto difficoltà nell’applicarla, o senza aver mai avuto prima esperienze operative in “trincea”: insomma, profili di eccellenza, ma più teorici che pratici. Questi stabilivano obiettivi a livello globale e li declinavano in obiettivi specifici per ogni singolo plant locale. Peccato, però, che non fossero in grado di comprendere le implicazioni di tali obiettivi a livello pratico, operativo, con conseguente perdita di credibilità a livello locale. A fronte di input talvolta lontani dalla realtà e dalla fattibilità operativa, i responsabili locali riuscivano facilmente a demolire progetti ed obiettivi del corporate, imponendo comunque la legge del “questa è casa mia, qui comando io, tu non sai nemmeno di cosa stai parlando, prima di dare ordini vieni a toccare con mano cosa significa stare in trincea”. In definitiva, il corporate era più di etichetta che altro: il timone era in mano ai responsabili locali.
    Onde evitare situazioni simili è bene:
    1) che chi opera a livello corporate abbia prima maturato solide competenze derivate dal lavorare diversi anni in “trincea” ed abbia acquisito credibilità riconosciuta in base ai risultati ottenuti sul campo
    2) condividere con i responsabili locali progetti ed obiettivi, senza che questi possano essere visti come un’imposizione da parte del corporate; talvolta anche smussare qualche spigolo, pur di raggiungere la completa condivisione
    3) lasciare un minimo di autonomia decisionale e sulle modalità operative ai responsabili locali per il raggiungimento degli obiettivi (non è detto che la medesima ricetta sia la migliore per il plant in Cina, quello in Svezia, quello in Italia… meglio quindi il federalismo)
    In bocca al lupo.

  11. Ciao Marco
    Ottimo quesito!!

    Lavoro per una multinazionale americana ad organizzazione matriciale, ed anch’io mi sono trovato spesso in un “imbarazzo” organizzativo.

    La soluzione è venuta dal nostro validissimo HR Manager che in fase di definizione dei goal annuali (5) per ciascuno dei dipendenti, ha definito anche a livello prioritario, quali erano i goal e quindi il primo riporto funzionale.

    Se il primo goal è relativo alla Business Unit, allora il responsabile di essa è il primo riporto, quindi al dipendente risulta chiaro (ci si augura) come definire le priorità

    Spero ti aiuti

  12. Buongiorno Marco,
    per la mia esperienza la risposta non può essere univoca e può variare a seconda delle “fasi storiche” che attraversa l’azienda.
    Noi abbiamo appena attraversato un periodo di revisione organizzativa dove, necessariamente, l’ultima parola spettava agli organi centrali. Ora siamo tornati a dare maggiore peso agl enti locali, un po’ perchè direttamente responsabili degli obiettivi di fatturato (e in periodi difficili questo conta molto), un po’ perchè una realtà come la nostra, 110 sedi sul territorio nazionale, richiede un “federalismo organizzativo” per tenersi al passo con i cambiamenti del mercato.
    Spero di non aver generato ulteriore confusione, sono curioso anch’io come si organizzano nelle altre realtà.
    Marco

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