Olivetti, che uomo!
Dopo mesi, finalmente venerdì 9 ottobre è venuto il momento di tornare in aula. Il MUSTer può ripartire. Finalmente!
Destinazione Ivrea.
Affronto la partenza venerdì mattina con una notevole positività, una enorme curiosità e tanta voglia di vita vera.
Mi metto in auto e inizio subito a pensare che in realtà non so neanche dove sia Ivrea… kilomentro dopo kilometro la scopro più vicina di quanto pensassi.
Uscendo dall’autostrada percorro un lungo viale immerso nel verde su cui si affacciano delle splendide architetture.
Mi chiedo con non poca curiosità cosa ci fanno degli esempi così notevoli di architettura razionalista in questo luogo disperso. Ne vedo altre e constato che sono davvero bellissime e vorrei proprio fermarmi a vederle da vicino, ma sono in ritardo, come da mia abitudine. E così proseguo sorridendo che per quanto abbia voglia di allontanarmi dal mondo delle costruzioni, questa professione fa invece parte di me perché mi appassiona troppo, nonostante tutto.
Metto a tacere questi pensieri e percorro gli ultimi kilometri pensando alla giornata che mi attende. Olivetti. Adriano Olivetti. Altro sorriso, perché cerco di focalizzare cosa so di lui.
Olivetti, un collega.
So che era un ingegnere. Già mi piace, un collega. Penso che sicuramente sarà stato uno di quegli ingegneri che io classifico come “veri”, con la “I” maiuscola. Avrà messo a punto qualche sistema innovativo nelle sue macchine da scrivere, ma non riesco proprio a riportare alla mente nulla di specifico.
So di lui che il suo negozio a Venezia era stato realizzato da Carlo Scarpa. Ricordo nitidamente la bellezza senza tempo di quel negozio, la cura dei meravigliosi dettagli che Carlo Scarpa aveva messo lì, come era solito fare in tutte le opere architettoniche. Oggi è stato riportato al suo splendore originario, grazie al grande lavoro del FAI. Una delle mie tappe preferite di Venezia.
Ho sicuramente sentito parlare di un film prodotto dalla RAI su di lui, ma io e la televisione abbiamo un pessimo rapporto e ovviamente non l’ho visto.
Con la profonda consapevolezza che so di non sapere, scendo dalla macchina. Altro sorriso perché forse non dovrei scomodare Socrate ma riconoscere la mia profonda ignoranza. Ma sono qui per imparare.
La giornata non poteva avere incipit migliore di quello di Bruno Lamborghini che intitola il suo intervento “Il progetto imprenditoriale di Adriano Olivetti, ieri, oggi e domani”.
Il viaggio inizia e pian piano le parole del prof. Lamborghini mi guidano in questi che saranno due giorni di scoperta di quest’uomo incredibile, che era Adriano Olivetti. Non mi sento di definirlo diversamente, perché il suo essere ingegnere, imprenditore, appassionato di cultura erano componenti di una personalità unica, fuori dal comune.
La scoperta grandiosa è stata che la sua visione imprenditoriale, Olivetti la realizzava attorno agli anni ’50, ovvero circa 70 anni fa.
Parole inventate 70 anni fa
E noi oggi parliamo di sostenibilità come intersezione dei tre pilastri: economia, ambiente, società. E parliamo di responsabilità sociale di impresa. E parliamo di UN Goals al 2030…. Secondo me Adriano ogni tanto si fa delle grandissime risate da lassù.
Questa immersione nella visione imprenditoriale di Olivetti, mi ha fatto sentire a casa.
Nel mio piccolo sono da sempre un’appassionata di sostenibilità e un’esperta di sistemi di gestione, uno strumento che da sempre considero utilissimo per mettere a fattore comune i tanti aspetti di cui un’azienda debba tener conto nello svolgere le sue attività per raggiungere gli obiettivi che si è data. Mi sono spesso sentita una pecora nera, ancor più perché questa mia esperienza cerco di applicarla al settore delle costruzioni, uno dei settori meno sensibili al cambiamento e anche a causa di questo sempre più povero economicamente e culturalmente.
I valori di Olivetti penso siano sono gli stessi cui oggi è indispensabile tornare, il più rapidamente possibile. Non solo come lavoratori, ma come cittadini e come persone.
Sono infatti convinta che la complessità in cui viviamo ci consenta sempre meno di avere soluzione di continuità tra la vita e il lavoro. E il nostro sistema di valori, le nostre passioni, le nostre curiosità, le nostre conoscenze, i nostri sentimenti li dobbiamo portare anche nel nostro lavoro.
Anche se sottoscrivo mentalmente ogni giorno il punto 1) del Manifesto di Fior di Risorse: “Non siamo il lavoro che facciamo”, al tempo stesso siamo e dobbiamo restare delle persone. E ho sperimentato l’incoerenza tra i miei valori e il mio essere e il lavoro che facevo. E questa esperienza mi ha portata così in basso da aver tratto una lezione indispensabile per la mia vita: sono una persona sola. E non accetterò mai più di rinunciare a me stessa e a quello in cui credo. In qualunque contesto, anche nel lavoro.
E Olivetti me lo ha ricordato forte e chiaro: “l’uomo che vive la lunga giornata nell’officina non sigilla la sua umanità nella tuta da lavoro”.
Quanto abbiamo bisogno oggi di ricordarci che siamo persone? Che il capitale più prezioso di un’azienda sono le persone?
E Adriano Olivetti vedeva i suoi collaboratori prima di tutto come persone libere. E questo concetto di libertà che può apparire tanto astratto lui lo ha saputo tradurre invece in azioni estremamente concrete.
La libertà di una persona si costruisce prima di tutto attraverso la cultura.
Attraverso la cultura ogni persona è in grado di costruire il proprio bagaglio di conoscenze cui diventare consapevole, maturare proprie idee e propri valori e capace di confrontarsi con gli altri.
La potenza di questo messaggio è tutt’altro che esaurita, come ci ha confermato anche il prof. Norberto Patrignani. La sua esperienza di uomo di scienza, lo ha portato a capire quanto sia indispensabile oggi sfruttare la nostra conoscenza per imparare a convivere in armonia con la natura. E più sapremo condividere la nostra conoscenza, più sapremo moltiplicarla e fare innovazione. Ma non dobbiamo mai perdere di vista che al centro dell’attuale complessità e progresso tecnologico, ci siamo noi, persone umane.
Perché se al tempo di Olivetti era la fabbrica a privare l’uomo della sua dimensione umana, oggi lo stesso rischio lo corriamo con la tecnologia. Ma essa agisce in maniera molto più subdola, arrivando a renderci schiavi privi di personalità, partendo però dall’offerta (apparente) di libertà.
Allora esattamente come al tempo della fabbrica, è importante che la nostra cultura sia solida e continuamente alimentata, dalla bellezza. La bellezza di un paesaggio, di un dipinto, di un’architettura, di una canzone, di una poesia….bellezza che dobbiamo tornare ad imparare ad assaporare, facendone esperienza.
L’esperienza della cultura era la stessa che Olivetti offriva ogni giorno ai suoi collaboratori. Non reinvestiva gli utili della sua azienda in attività caritatevoli o nel supporto ad attività culturali. Assolutamente no.
Trasmettere la bellezza attraverso la cultura
Olivetti era l’uomo delle contaminazioni. E allora, la cultura la portava in azienda. Come? Organizzando concerti per i collaboratori, organizzando conferenze con gli intellettuali, assumendo poeti perché lavorassero nella sua azienda, assumendo grafici perché riuscissero a comunicare l’unicità delle creazioni, facendo diventare i suoi negozi delle gallerie d’arte, facendo costruire le fabbriche più belle e all’avanguardia del momento.
Fabbriche che anziché avere muri avevano enormi vetrate da cui gli operai potessero godere in ogni momento della vista e della bellezza dello spazio naturale esterno.
Bella sfida per gli imprenditori di oggi che si ritengono sostenibili e socialmente utili perché destinano una percentuale dei loro fatturato ad attività sociali o culturali.
Ma quest’uomo esemplare ha saputo andare ancora oltre, proprio in un tema oggi più che mai attuale: il rapporto tra l’impresa e il territorio in cui essa opera.
Il coinvolgimento
Olivetti ha saputo dare concretezza ad uno dei principi cardine dei più moderni sistemi di gestione, il coinvolgimento. Per lui il coinvolgimento era continuo scambio, sia dentro che fuori dalle mura della fabbrica. Così fondò una scuola di formazione per tecnici meccanici, creò un centro di assistenza socio-sanitario per i collaboratori e le loro famiglie, costruì un asilo aziendale, ridusse l’orario di lavoro affinché dopo la fabbrica gli operai potessero occuparsi degli animali nelle loro fattorie, sostenne le aziende agricole fornendo loro la possibilità di produrre le materie prime per la mensa che ogni giorno sfornava fino a 5000 pasti.
E nella difficoltà, ha saputo far diventare i suoi collaboratori una squadra affiatata, li ha fatti sentire orgogliosi di essere parte di quell’azienda e ha cercato in ogni modo di attuare un importante insegnamento del padre Camillo, quello di non licenziare, perché un uomo senza lavoro, è un uomo cui viene a mancare una dimensione importante dell’esistenza, per sé stesso e per la comunità in cui vive.
Dovremmo ricordarlo più spesso a chi oggi non è disposto a riconoscere il merito e relega invece il nostro paese nell’assistenzialismo.
La potenza del valore lasciato sul territorio si respira intensamente, in un luogo come Cella Grande. Questo è un monastero sulla riva del lago di Viverone, che oggi, grazie al lavoro di un uomo incredibile e del suo prezioso staff, continua a vivere come luogo di lavoro e conforto dello spirito dei suoi ospiti.
L’importanza del legame col territorio, così come impostata nel pensiero e nelle azioni di Olivetti, l’ha capita bene Roberto Bagnot, fondatore di questa struttura in cui il 95% dei prodotti serviti sulla tavola è prodotto da aziende locali, e dove non viene buttato via nemmeno il letame delle mucche, che diventa materia prima per la produzione di energia. Giusto per ricordarci cosa significhi realmente economia circolare.
E Cella Grande è un luogo di una bellezza incredibile, sia per l’architettura del monastero che per la cornice paesaggistica. Roberto non l’ha costruito, i monaci ci hanno pensato prima di lui, ma lui ne ha curato la riqualificazione con un ottimo gusto (e degli ottimi collaboratori), che oggi riesce ad esaltare il valore di una storia capace di guardare al presente e al futuro.
Questa stessa proiezione al futuro, di cui Olivetti era così pervaso, l’ho trovata purtroppo troppo sfumata in quello che sono oggi le fabbriche. Stanno patendo il tempo che passa. Sia nell’architettura che nello spirito.
L’Unesco ha messo sotto la sua protezione le ex fabbriche Olivetti e lo ha fatto per l’indubbia forza di quello che ancora oggi rappresentano.
Ma questa storia ha bisogno di essere raccontata, perché la potenza dei valori che ci ha raccontato il prof. Lamborghini è tutt’oggi inalterata.
E allora facciamo qualcosa perché il grandissimo Marco Peroni possa emozionare con i suoi racconti e la sua arte senza essere costretto a portarsi sulle spalle una cassa e un microfono per cercare di sovrastare i rumori della strada per riuscire ad arrivare alle orecchie di noi visitatori.
Gli attori che oggi devono giocare la sfida di ridare vita a questi luoghi non hanno certo un compito facile. E quanta profonda tristezza li ho visti persi nelle solite logiche tipiche del nostro paese.
Possibile quando hanno davanti una testimonianza di questa portata? Purtroppo temo di si.
È certo che oggi viviamo nella complessità. Ma oggi non è diverso da allora.
Ma quello che ho capito in questi due giorni è che Adriano Olivetti definisce in maniera piuttosto chiara quali siano i principi necessari a vincere la sfida di fare la differenza. Questi principi valgono anche per noi oggi. Sono gli strumenti ce li dobbiamo costruire da soli, adattandoli al nostro tempo, per vincere la nostra sfida e costruire oggi il futuro che vogliamo.
Nessuno costruirà un futuro al posto nostro, se non saremo noi a guardare in una direzione diversa e metterci in ogni nuovo giorno tutta la nostra forza, le nostre idee e il nostro l’entusiasmo.
Grazie a questa intensa tappa di MUSTer, a grazie a Salvatore che l’ha voluta e organizzata con tanto lavoro e pazienza. Perché era certo che solo vedendo e ascoltando avremmo creduto e capito.
Torno verso i confini della Svizzera, terra in cui Adriano ci ha lasciato inaspettatamente nel 1960.
Ricordo che si racconta tornasse da una due giorni romantica.
Sorrido a pensare che, mio caro Adriano, in questa due giorni hai proprio stregato anche me.