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Da affidabili a resilienti. O no?

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Questo post nasce dalla volontà di approfondire il tema dell’ affidabilità, partendo da uno degli spunti dell’intervento di Giorgio Bombarda sulla sua esperienza in Germania. 

Perché parlare di affidabilità in ambito professionale? Dovrebbe essere un concetto lapalissiano, sia nel significato del termine che nella sua applicazione pratica. Tuttavia sembra che negli ultimi anni abbia assunto contenuti meno universali e da adattare ai contesti di riferimento (peraltro in buona compagnia con altri quali onestà, fedeltà, etica …).

Interrogandomi sull’importanza dell’affidibilità nella gerarchia delle caratteristiche ritenute più apprezzabili in ambito professionale, una prima illuminazione su un possibile cambio di paradigma mi è stato fornito su Linkedin dal commento di Luca Bertozzi che cito integralmente:

Andrea, in realtà altissima. È il concetto italico di affidabilità che è sbagliato. In Italia è un sinonimo di assoluta condiscendenza. All’estero di competenza”.

In Italia, quindi, l’affidabilità sarebbe assimilabile alla condiscendenza.

Ricorrendo al Devoto Oli: ”essere incline a consentire agli altrui desideri, arrendevolezza”.

Da soggetto consapevole delle proprie azioni e relative responsabilità, quindi, a mero utensile usato da terzi per finalità indipendenti dall’assunto di partenza. Che dovrebbe essere quello di svolgere al meglio delle proprie capacità i compiti assegnati.

Basta osservare con un minimo di distacco vari ambiti – professionali e non solo – per avere riprove di questo stravolgimento del concetto di affidabilità.

In politica: indipendentemente dalle opinioni di ciascuno, le vicende del Movimento 5 Stelle ne sono una prima conferma. O si è allineati “a prescindere” con i 2 leader carismatici o si è messi alla gogna ed … alla porta.

Nel calcio: è sotto gli occhi di tutti gli appassionati come le classi arbitrali, italiche e non, siano palesemente condizionate e compiacenti nei confronti delle organizzazioni (FIFA, UEFA, FIGC) che lo governano.

Nelle aziende (pubblica amministrazione o settore privato non vedo molta differenza): le mitiche “cordate”, nonostante il continuo evolversi dei know how connesso alla rivoluzione tecnologica in atto, determinano ancora l’evolversi delle posizioni professionali e la modalità di accesso non è per competenze ma per condiscendenza. 

Ed ancora: cosa comporta nei confronti degli interlocutori esterni all’organizzazione (clienti o fruitori del nostro lavoro che siano) essere condiscendenti anziché affidabili? A prima vista illusori vantaggi nel senso di minimizzazione dei possibili conflitti; all’atto pratico l’esatto contrario, essendo preponderante l’obiettivo di compiacere i vertici dell’organizzazione cui si appartiene a scapito della customer satisfaction. 

Un ultimo spunto di riflessione – prima di attendere i punti di vista di chi vorrà intervenire – parte dal sinonimo di condiscendenza, “arrendevolezza”, visto in precedenza. Il mio pensiero va istantaneamente ad un altro termine “resilienza”, anch’esso molto in voga da qualche anno. Tale concetto è stato disinvoltamente mediato dalla tecnologia dei materiali alla psicologia. Peraltro ha in origine contenuti diversi – resistenza / capacità di tornare alla forma originale a seguito di un urto – a seconda dei materiali cui si riferisce. Ne discende l’ambivalenza del termine traslato in campo psicologico, perché a guardar bene potrebbe portare a comportamenti opposti. Anche se la mia percezione è che si usi il termine resilienza per descrivere una disponibilità all’assorbimento delle sollecitazioni esterne, senza nessun approfondimento delle conseguenze di questo processo in chi se ne rende interprete.

“Via via che la logica si perfeziona, diminuisce il numero delle cose che si possono dimostrare.” (Bertrand Russel).

2 Commenti

  1. La cosa che più mi intristisce della condiscendenza, Andrea, è che è manifestamente fallimentare come approccio. (A propoisto, grazie della citazione). La mostruosa perdita di competitività italiana deriva da aver abbandonato ogni idea di sfida, merito e competenza. Si fa carriera per cooptazione, a partire dalla politica per finire all’impresa, passando attraverso quella straordinaria sublimazione della condiscendenza che è la pubblica amministrazione. È un modello culturale devastante, che impera in questo paese da decenni, figlio del terrore per la meritocrazia, della incapacità di affrontare problemi complessi che richiedono delega e coraggio, e di una classe imprenditoriale familiare e sostanzialmente ignorante, gretta e con orizzonti limitatissimi (ovviamente con lodevoli eccezioni). Con questo tipo di cultura non si può che circondarsi di yes-persons, perché questa è l’affidabilità che si cerca e vuole. Sai quante volte miei colleghi dirigenti in Italia mi hanno detto che la cosa più importante quando si valutava un candidato per un posto era che “non fosse un rompicoglioni”? Ovvero, qualcuno che non sfidi lo status quo. Anche se conduce alla morte.

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